Contro la cancel culture

 

Contro la cancel culture

Nel giorno di Pasqua in molti hanno scelto di pubblicare sui loro profili social un dipinto dedicato alla Resurrezione di Cristo, tra gli innumerevoli che l’arte europea ci ha tramandato. Coloro che vogliono esprimere i valori eterni, le idee e i simboli universali − tutto ciò che sfugge alla presa delle contingenze terrene e permane immutabile nel vanire delle generazioni − nel 2021 sono dunque costretti a rifarsi alle immagini di Giotto, di Michelangelo, di Bronzino, di Guido Reni; non certo agli squali in formaldeide di Damien Hirst, alle performance autolesionistiche di Marina Abramović, o ai murales di Banksy.

In fondo anche coloro che si trovano a proprio agio tra i deliri del progressismo, e ne hanno sposato in pieno dogmi e miti, volente o nolente devono ricorrere al tanto vituperato passato ogni volta che sono costretti ad esprimere qualcosa di profondo, di essenziale. Quel passato che nell’epoca della cancel culture, una delle tante follie partorite dal politicamente corretto, è divenuto qualcosa di ingombrante agli occhi degli odierni iconoclasti. Parliamo naturalmente di coloro che vorrebbero cancellare Dante e Mozart − in ossequio alla cultura del piagnisteo − o impoverire sempre di più il linguaggio, ad esempio attraverso l’abolizione del congiuntivo, riducendo all’osso la punteggiatura e utilizzando solo tempi verbali coniugati al presente.

Nel romanzo di Orwell 1984, l’impoverimento del linguaggio e la distruzione dei classici della letteratura consentono al Partito di mantenere ed estendere il suo dominio totalitario sulle masse: uno dei suoi membri afferma che “la neolingua non mira ad altro che a ridurre la gamma dei pensieri”, e ancora “ogni anno sempre meno parole, e lo spazio della coscienza sempre un po’ più ristretto.” Naturalmente il Partito non sa che farsene di autori come Chaucer, Shakespeare o Milton, e per tale motivo entro il 2050 “tutta la letteratura del passato sarà stata distrutta.” Anche oggi, come nel futuro distopico preconizzato da Orwell, l’impoverimento del linguaggio è uno degli obiettivi principali perseguiti dal potere, poiché impoverire il linguaggio significa impoverire il pensiero: più la lingua che utilizziamo è ricca di sfumature e di vocaboli, tanto più siamo in grado di tradurre in parole i nostri pensieri, sentimenti ed emozioni; la nostra capacità di cogliere ed esprimere il reale cresce in proporzione alla ricchezza e alla varietà della nostra lingua. E lo stesso naturalmente vale per le immagini: le immagini che ci portiamo impresse nella mente, quelle che danno voce ai nostri terrori o aneliti più profondi − e che continuano a splendere come un tesoro sepolto da cumuli di detriti − sono state eternate da quegli artisti ai quali la furia iconoclasta degli apostoli del brutto vorrebbe infliggere una vera e propria damnatio memoriae.

Detto in parole povere, quello che i sacerdoti del pensiero unico sognano è un mondo in cui non ci sia più niente da dire, da guardare o ascoltare, ad eccezione delle menzogne e delle brutture diffuse senza sosta dagli organi di propaganda. Il potere ci vuole muti, ciechi e sordi, come tanti animali condotti al macello, a cui sia preclusa persino la possibilità di esprimere il dolore e la paura di fronte al destino di morte che li attende. Perciò ogni scheggia di bellezza ‒ che sia un verso di Cristina Campo o un paesaggio di Rembrandt ‒ è come una lama che squarcia il velo di tenebra che ci opprime. La bellezza crea delle fenditure, delle brecce da cui è possibile evadere dalla prigione dello spazio e del tempo: essa è come un ponte gettato sull’Infinito, e ci consente di ricordare Chi siamo e da Chi proveniamo. Compito dell’arte, come ci ripete Platone, è rammentarci le realtà eterne: è la bellezza che ci permette di pervenire al nostro Centro e di giungere, nelle parole di Dante, “là ʼve s’appunta ogni ubi e ogni quando”. Che ci permette di evadere, in definitiva, dalla morte. Ed è proprio questo che terrorizza i tiranni del nostro tempo: la possibilità che l’uomo si ricordi della sua essenza immortale e divina, e scopra così che “in lui alberga una vita eterna, terra inesplorata e tuttavia abitata che anche se lui stesso ne nega l’esistenza nessun potere temporale potrà mai strappargli” (Jünger). Finché la bellezza permane, e con essa la capacità di riconoscerla ed esprimerla, le forze della sovversione non potranno prevalere.

“Dio è bello ed ama la bellezza”, recita un celebre adīth, e tutto ciò che è bello è come un sentiero che ci riporta a Casa.

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