“Coraggio!”. Nel grigio mattino di febbraio del 1945 un giovane di trentacinque anni lancia con voce decisa e sguardo volto al cielo l’ultima sfida al plotone d’esecuzione ed al suo paese che lo ha rinnegato. Pochi istanti dopo cadrà vittima di quelle dodici bocche di fuoco avide del suo sangue. Quella grossa goccia, simile al petalo di rosa che, colandogli dalla fronte, sarà raccolta dal suo avvocato, Jacques Isorni, su foglio di carta per portarla a coloro che l’amano e idealmente a tutti coloro che nel tempo se ne faranno testimoni.
Quel giovane ha reso la sua condanna un “onore” pur sapendo bene che trattasi di una “vergogna”, ormai da settantacinque anni paga l’ostracismo d’aver servito una causa schiacciata dai cingoli degli invasori – autodefiniti “liberatori” – d’Oltreoceano e da Oriente. È la Francia odiosa e menzognera, dove giovanissimo era divenuto promessa letteraria, il nostro fratello più caro, Robert Brasillach. Noi ne abbiamo raccolto il verso e la sfida.
Soltanto nel 1957 la sorella Suzanne e l’amico e cognato Maurice Bardèche ottengono la traslazione della salma dal cimitero monumentale di Père-Lachaise, ove riposava dal 20 aprile del 1945, per Saint-Germain de Charonne. “Videro a mezza costa, improvvisamente, spiccare la piccola chiesa col suo campanile e il suo galletto, relitto meraviglioso di un antico villaggio… Essa sola, infatti, credo, in Parigi ha serbato il suo piccolo cimitero di campagna dove già non c’è più posto per i futuri morti”. Così lo aveva descritto ne I sette colori e qui i due protagonisti, Caterina e Patrizio, avevano disvelato il sentimento, che stava nascendo in loro, sfiorandosi la mano. Era, dunque, giusto e bello che fosse l’ultima tappa di una giovinezza trasognata e coinvolta, d’una morte tragica e tormentata al palo dei condannati a morte nel forte di Montrouge e, poi, a Thiais, là dove le tombe non portano nome, dove è vietato erigere una stele o deporre un fiore. Sepolto con la madre, Marguerite Maugis, e in altra tomba, dal 1998, Maurice Bardèche e, suppongo, la sorella. Una ricomposta fratellanza d’affetti mai sopiti tenaci in vita ed oltre la morte.
1968, Parigi vive blindata le giornate di maggio. Dalla stazione de Lyon, ove arrivano i treni dall’Italia, strade piazze ponti il Quartiere Latino e la Sorbona occupata con le bandiere rosse a svettare provocatorie pochi i passanti frettolosi muti storditi polizia con elmetti scudi maschere antigas bandoliere jepp camion idranti. Nell’aula magna veniamo accolti al grido reiterato e storpiato di “Valle Giulia! Valle Giulia!” e cento e mille mani battono sui banchi. Mi annoio del bla-bla di parole incendiarie frammiste a luoghi comuni Marx e suoi esegeti, spesso botoli ringhiosi fra loro. Da un pannello sorride sornione il faccione di Mao. Alla parete il volto febbricitante del Che nella celebre fotografia di Korda e altri volti, altre icone… Me ne vado alla ricerca di altra meta.
Ad approdo sicuro di idee e sentimenti, anche se mi oriento incerto e con un francese smozzicato. Non posso certo chiedere ai “compagni” della rivoluzione del “tutto e subito”, ignoranti e fanatici, come possa arrivare alla tomba di Robert Brasillach. Il metrò è la soluzione, come uno dei milioni di anonimi turisti. Charonne è stato inglobato nel XX Arrondissement. Scendo ad Alexandre Dumas che si affaccia in rue de Bagnolet, citata dallo stesso scrittore ne I sette colori. La percorro ed ecco la chiesa e il piccolo cimitero annesso. Tripudio di fiori sulla sua tomba, mi hanno mandato delle fotografie pochi anni fa, ma in quel tardo mattino di maggio spoglia e silenziosa… Un luogo per pochi, quel perimetro ove noi non siamo gli altri e ne siamo ben lieti.