Nel 1959 Piero Manzoni espose a Milano Corpi d’aria, entro custodie di legno erano riposti un sacchetto col palloncino, un tubicino, le istruzioni e accanto alla scatola un tre piedi sul quale fissare il pallone gonfiato dall’acquirente, l’anno seguente le “sculture pneumatiche” saranno Fiato d’artista, le insufflava, a pagamento, c’era il suo respiro di vita nella membrana debitamente firmata con l’impronta digitale. Una provocazione new dada al circo Barnum dell’arte coi suoi beoti sciccosi fruitori della beffa, critici concettuali, collezionisti con in frigo Merda d’Artista, al nulla d’altronde vendi il nulla griffato, fosse l’orinatoio di Marcel Duchamp.
Trasferito al presente quel pneuma sberleffo, par s’ addica al grande gregge, gonfiamo palloncini soffiando forte, li sigilliamo con spago boria scrivendoci sopra l’etichetta, nome, cognome e il titolo: “Valori”, esponendoli poi con vanità sulla bacheca all’ingresso, a mo’ di stemma, con piena libertà di scelta di forme e colori, magari, che so, allusivi al genere percepito o al credo politico, tanto per fare esempi, senza dimenticare di imprimere sul lattice il green-pass a garanzia d’amici e conoscenti, tante volte dovesse uscire un refolino del fiato.
Quei piccoli aerostati, legati a mazzi, di corpi diversi, variopinti, erano un tempo oggetto di desiderio dei piccini, alle feste dei borghi, nelle passeggiate domenicali, l’omino prendeva quello scelto legandolo al polso del bambino, felice l’osservava volteggiare verso il cielo, e già quel cielo al quale, per dispetto, con disappunto, volava leggero diventando un punto seguito naso all’insù non senza una lacrimuccia. I Corpi d’aria di Manzoni, si sa, non volano, gonfiati a fatica col nostro espiro, pesano, non conquisteranno mai l’etere, Icari senza ali ballonzeranno a terra, ingannando i sogni d’aria dei marmocchi, senza la nobiltà dell’elio non gli è dato sfidare l’altezza delle stelle.
Ma i palloncini a fiato scoppiano pure, lasciandoci una larva o appassiscono grinzosi perdendo aria, s’ammosciano, senza gas leggero non s’alzano dai tre piedi e lì s’afflosciano, cruda metafora del nostro tempo “vuoto di senso, senso di vuoto” cantava F. Battiato e non ci sono “Dei che avanzano”. Anzi i templi chiudono, dai minareti s’affacciano sacerdoti della scienza, della tecnica salmodiando un’unica preghiera: adorate il freccia rossa del Relativismo, la velocità pazzesca del cambiamento assai più bella, intrigante, della Venere di Milo, adorate la lussuria delle cose, la concupiscenza nei grandi magazzini, il voyeurisme dei talk show, l’opinionismo dei blablisti, l’effimero delle bucce senza aprire il pomo, tanto il seme non c’è, l’hanno tolto anche dalla frutta.
Inspiriamo col cervello il nulla espirandolo in colorati palloncini, tanti autoritratti da appendere sui muri del MIN, Museo Internazionale del Nichilismo, vaccinati contro il virus del pensiero, adottiamo il mantice della bocca per gonfiare l’io, esattamente come fanno intellettuali e politici circensi, otri dell’aria fritta, peggio, della banalità inodore, insapore, omogenizzato buon per tutti.
Nel 2016 l’astrofisico Stephen Hawking rilasciava un’intervista al Larry King Now, un talk show, nella quale preconizzava l’autodistruzione dell’umanità minacciata da quattro fattori, inquinamento, avidità, stupidità e intelligenze artificiali “ Una volta che le macchine saranno in grado di migliorare se stesse da sole, non possiamo predire se i loro obiettivi saranno gli stessi dei nostri”. Certamente no in quanto i nostri, d’aria, non avranno peso decisionale a meno che non coincidano.
La cura? Beh riporto un aforisma di Louis-Ferdinand Céline: “La miglior cosa che puoi fare, no?, quando sei a ‘sto mondo, è di uscirne. Matto o no, paura o no”.
Fra Taddeo nel suo piccolo eremo sugli Appennini umbro-marchigiani ci ammonisce: “Il mondo ha bisogno di fermarsi, smettere di correre a mille” inseguendo la lepre verde del denaro ma poiché è utopia, meglio scendere, cambiare treno e compagnia salendo su un convoglio a vapore lasciando che l’altro si schianti e vaffa…
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