Stati Uniti, contea di Marin, California, carcere di San Quintino, 2 maggio 1960, ore 10, il telefono del carcere di massima sicurezza che ospita il braccio della morte suona, dall’altro capo della cornetta
Il giudice federale Goodman, chiamava per chiedere una sospensione alla pena capitale (mediante camera a gas), del prigioniero della cella 2455. Il Direttore del carcere comunica che le valvole sono già state aperte, e che l’eventuale l’apertura della camera a gas provocherebbe gravi danni ai presenti. Ore 10:12 il prigioniero Caryl Chessman, viene dichiarato morto.
Caryl Chessman (1921-1960), dopo aver trascorso molti anni tra riformatori e prigioni, fu definitivamente arrestato nel 1948 all’età di 27 anni. Prima della vicenda carceraria che lo portò alla morte, fu un criminale nella cui carriera (come egli stesso ammette nel sul libro “Cella 2455”), aveva eseguito furti, rapine, e svariati altri crimini. Nel periodo precedente al suo ultimo arresto, era in circolazione un rapinatore che utilizzava un lampeggiante rosso, allo scopo di spacciarsi poliziotto, e rapinare giovani coppie, commettendo a volte violenze sessuali. Gli identikit forniti parlavano di un uomo alla guida di una Ford decappottabile nuova, di colore chiaro. Chessman venne arrestato alla guida di una Ford nuova, che però era di colore scuro e non era decappottabile, fra l’altro non corrispondeva alla descrizione fisica che era stata data del rapinatore, ma visti i suoi precedenti fu accusato di essere il “Bandito della Luce Rossa”, e condannato a due condanne a morte. In carcere iniziò a studiare legge, e licenziato l’avvocato d’ufficio iniziò a difendersi da solo, riuscendo con vari espedienti legali, a “sopravvivere” nel braccio della morte per ben 12 anni, ottenendo ben 8 rinvii. Nei dodici anni della prigionia a San Quintino, negli Stati Uniti si attivò il primo grande movimento di opinione contro la pena di morte. Da tutto il mondo si ebbero appelli per la revisione del processo, tra cui, persino Eleanor Roosevelt. In carcere scrisse 4 libri. “Cella 2455 braccio della morte”, “La legge mi vuole morto“, “Il volto della giustizia”, e “Violenza è la mia legge”, divenuti dei veri best seller. Voci di corridoio, attribuiscono il ritardo nella risposta al telefono, alla precisa volontà delle autorità carcerarie di “sopprimere”, l’autore, prima che la montante notorietà, potesse magari precludere ad una revisione delle accuse.
Roma, 5 dicembre 2022, alla presentazione del lungometraggio “Corpo dei giorni”, per la regia di Henry Albert, Saverio Cappiello, Gianvito Cofano, e Nikola Lorenzin, premiato come “Miglior Film” nella categoria “Documentari Italiani” al Torino Film Festival, il protagonista non ci sarà. Il Film girato nel marzo del 2020 in uno sperduto casale descrive la vita e la storia dell’ex-terrorista nero Mario Tuti che si intreccia a quelle di altre persone, il padrone del casale, un domatore di cavalli, un padre che ritrova le figlie, e una troupe di un’altra generazione, che passano una stagione insieme, circondati da vacche, vipere e lupi, in attesa che le porte del carcere si aprano di nuovo per l’ergastolano. Mario Tuti rappresenta, per una parte rilevante degli italiani il “nemico perfetto”, la sua vicenda politica e giudiziaria propone tutti i tratti del perfetto terrorista” fascista”. Il titolo del lungometraggio, viene da una vecchia poesia scritta in carcere da Tuti.
Nato ad Empoli nel 1946, da una famiglia di origini Friulane, dopo gli studi superiori da geometra, si iscrive alla facoltà di architettura di Firenze. Terminato il servizio militare, nel 1968, in piena contestazione giovanile, fa ritorno a Firenze dove conseguirà la laurea, per poi sfruttare il suo diploma da geometra per essere assunto come impiegato comunale nella sua città natale.
Nel 1970 si iscrive al Movimento Sociale Italiano, per poi avvicinarsi agli ambienti della destra extraparlamentare una volta convintosi che il partito, suo malgrado, stava evolvendo in senso conservatore e reazionario. Nel 1971 aderisce a Ordine Nuovo e si impegna, a Empoli, nell’attività politica attraverso la distribuzione del mensile “L’orologio”. Lo scioglimento, per decreto ministeriale, di ON lo porterà a maturare la decisione di convertirsi alla lotta armata. Nel 1974 fonda il “Fronte Nazionale Rivoluzionario”, un’organizzazione armata ispirata al fascismo sansepolcrista e agli ideali della Repubblica Sociale Italiana. Il movimento è formata da un nucleo molto ristretto di militanti toscani. Le attività “Terroristiche” del F.N.R. si limitano ad attentati ad infrastrutture (anche se potenzialmente pericolose) come tre attentati ferroviari nella tratta Arezzo-Chiusi, e l’abbattimento di un traliccio dell’Enel nei pressi di Pistoia. La notte del 22 gennaio 1975, nell’ambito delle indagini dell’antiterrorismo, vengono arrestati 2 sodali di Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi, che si stavano recando ad un loro deposito di esplosivo nei pressi di Castiglion Fiorentino. Il 24 gennaio, dopo le 20, tre agenti di polizia di Empoli arrivano a casa di Tuti per una perquisizione: il brigadiere Leonardo Falco e gli appuntati Giovanni Ceravolo e Arturo Rocca. Tuti aprirà in fuoco uccidendo i primi due agenti, e ferendo gravemente il terzo. Dopo il duplice omicidio riesce a fuggire trascorrendo i primi mesi di latitanza in Toscana. Dopo si dirise in Corsica e da qui in Francia. Il 27 luglio del 1975 viene catturato nei pressi di Saint Raphael in Provenza da un’azione congiunta fra polizia italiana e francese. Dopo il Processo e la condanna all’ergastolo, di Tuti sentiremo ancora parlare per un terzo omicidio, avvenuto il 13 aprile 1981 nel carcere di Novara quello del “pentito” Ermanno Buzzi. Omicidio anticipato sulla rivista carceraria. Quex un periodico clandestino cofondato da Tuti nel 1978, e per la rivolta dei detenuti nel penitenziario di Porto Azzurro all’isola d’Elba, (dove era stato trasferito) che durerà dal 25 agosto al 1º settembre 1987, e dove Tuti si era messo a capo di tutti i prigionieri, politici e comuni. Nonostante non si sia mai pentito o dissociato, a partire dagli anni novanta, quando era recluso nel penitenziario di Civitavecchia, Tuti muta il suo atteggiamento carcerario e diventa un detenuto modello, cominciando un’attività di produzione artistica e multimediale, Trasferito nella sezione di massima sicurezza del carcere livornese delle Sughere, grazie ad un progetto dell’Arci locale, realizzerà “Dead can dance”, un video contro la pena di morte. Quella pena di morte, tanto voluta dal M.S.I. di Giorgio Almirante che arriverà a chiedere per i terroristi “Neri” una “Doppia pena di morte, una per l’Uomo, una per il “Fascista”. Dopo aver respinto per due volte la sua richiesta, il tribunale di sorveglianza di Firenze, il 20 febbraio del 2004 gli concede la semilibertà e la possibilità di lavoro esterno con gli ex tossicodipendenti della comunità Mondonuovo di Tarquinia, contemporaneamente riesce anche a ottenere i primi permessi per visitare l’anziana madre a Empoli. Sempre nel 2004 debutta in teatro a Roma, presso il Teatro Anfitrione con la sceneggiatura di: ‘Secondo Qoelet’, opera sul dramma carcerario, scritta da Luciano Violante.
L’idea fondante del progetto voluto dall’ex presidente della Camera, nonché ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è chiaro, ridare voce a chi vive ai margini della società. Detenute e detenuti, salgono su di un palco per dimostrare, prima di tutto a loro stessi, di saper comunicare parlando un linguaggio comprensibile alla comunità che li ha banditi. In scena, dieci detenuti e cinque attori professionisti. Nel 2015 Tuti reciterà come co-protagonista nel film “Espero” di Alessandro Quadretti. Nel 2020 partecipa con un’intervista al documentario Maurizio Murelli – “Non siamo caduti in autunno”. Ad agosto del 2021, durante una licenza, viene ripreso da un servizio di Rainews mentre partecipa a un campo estivo del Blocco Studentesco. Qualche giorno dopo, vengono presentate alla Camera e al Senato alcune interrogazioni sull’episodio da parte di parlamentari del Partito Democratico. In esse, si chiede al ministro della Giustizia e a quello dell’Interno che venga “impedito che assassini senza scrupoli possano propagandare gli ideali fascisti nei confronti di giovani generazioni”. Dopodiché, a Tuti viene sospesa la licenza e revocato il regime di semilibertà. Il 13 ottobre, infine, gli verrà riconfermato il regime ma con una serie di limitazioni: “Il detenuto ha l’obbligo di svolgere ogni giorno attività di collaborazione presso una Cooperativa sociale di tipo amministrativo e logistico; viene escluso, quindi, da qualsiasi coinvolgimento diretto con i giovani ospiti della casa-famiglia; al detenuto è fatto divieto di utilizzare i social media in qualsiasi forma; è tenuto a chiedere preventiva autorizzazione ai Magistrati di Sorveglianza in caso di partecipazione a eventi collettivi o manifestazione di esposizione pubblica di qualsiasi natura, (..)”.
Tuti come Chessman, non è un uomo innocente, ma come Chessman, la paura delle istituzioni, è che l’uomo pacioso di oggi, possa essere tramite per le idee dell’uomo di ieri. Le limitazioni alla semilibertà, con il divieto persino di recarsi a ritirare un meritato riconoscimento artistico, ad un uomo che ha scontato la propria pena, e non ha commesso nessun reato (almeno che non si consideri tale presenziare ad un evento culturale), è sintomo di uno stato debole.
A difesa di Mario Tuti, nessun “Camerata”, solo il “Compagno”, Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua oggi giornalista e scrittore, che dedica ad un suo vecchio “Nemico” un bellissimo articolo di cui vi allego uno stralcio:
“o non conosco Tuti, e mi sono fatto delle domande. Siccome la sua detenzione è così lunga (46 anni, e lui ne ha 75) e anche il riconoscimento della sua estinta pericolosità è così lungo (trent’anni), la ferita improvvisa suscitata dalla notizia in una parte di opinione può essere, oltre che il segno di una sensibilità fedele, un indizio della riluttanza ad ammettere le conseguenze di due capisaldi costituzionali e civili, come l’abolizione della pena di morte e l’affermazione che la pena possa restituire il condannato alla società? (Per esempio, è ragionevole chiamare Tuti “terrorista nero”? E’ un tradimento della memoria premettere un “ex”?) (..) Per anni, (..), Tuti ha tenuto una rubrica sul settimanale di Comunione e Liberazione “Tempi”, attento alla condizione carceraria, e là si leggono scritti addirittura sconcertanti come questo: “E anch’io, alla soglia dei settant’anni e nel mio quarantesimo anno di detenzione, provo a fare un bilancio della mia vita e di quest’anno ormai trascorso. Ringraziando il Signore seppure da non credente per avermi fatto conoscere la colpa, il peccato e la pena. Perché è stata l’esperienza del dolore e della violenza, inferti e in parte subiti, che mi ha reso capace di sentire nella carne e nella coscienza il dolore altrui, che mi ha fatto vivere e riconoscere gli altri in me stesso, aprendo il cuore a quella solidarietà nella pena e nella sofferenza che resta anche quando tutto il resto è ormai perduto. (..) Noi e i ‘compagni’, per una decina d’anni avevamo continuato a farci guerra fra noi, e allo stato. Poi abbiamo confrontato i rispettivi immaginari. Furono anni di isolamento, dei famigerati ‘braccetti’, una forma di tortura. Non avrei mai potuto lamentarmene: ero in guerra, lo stato era il mio nemico, io il suo, era dura ma se mi avessero interrogato avrei dovuto dire che avevano ragione a trattarmi così. Oggi è più pericoloso per un romanista finire nella curva laziale che per me trovarmi in un centro sociale o per un compagno a CasaPound.”
26 novembre 2022, Mario Tuti ha inviato alla Gazzetta Torinese, un “Saluto e Augurio” (per dirla alla Pasolini) per gli spettatori del Torino Film Festival.
“Dove la parola manca, dove essa viene meno per censura o complicità non può esserci verità, che quest’ultima attende d’essere nominata dalla parola. La verità infatti non è un’evidenza, tutt’altro. È spesso qualcosa che tutta la società, o almeno quel fondamentale momento del potere che è la comunicazione, si accorda per censurare.
Ci sono verità che sollevano problemi senza soluzione, che presuppongono un cambiamento radicale della società fino dalle sue fondamenta. Il carcere è una di queste verità. Esso infatti riguarda non soltanto coloro che lo vivono, ma tutti quanti. Il carcere è un luogo di infamia, sofferenza e abbrutimento. Non ha nulla a che fare con l’espiazione della colpa né tantomeno con la redenzione del prigioniero. Come tutte le verità, anche questa non necessita di essere dimostrata. Tutto tende a dimostrare il contrario, ovvero che si tratta di un luogo perfettibile, strutturato da una tensione di giustizia. Ma si tratta di un’idea soltanto ripetuta, non certo vera. Chiunque si prenda la briga o abbia la disgrazia di conoscere il carcere non ha bisogno di dimostrazioni o prove, sa della falsità di ciò che viene detto e della verità di ciò che non viene detto. D’altronde quelli che hanno conosciuto il carcere dividono il mondo in due grandi gruppi. Loro e gli altri: è inevitabile, non lo scelgono, è una deformazione della loro anima che produce per gli occhi e per il cuore due immagini diverse della stessa realtà umana. Non è dissociazione né schizofrenia, è semplicemente la scoperta d’essere altro. D’aver varcato una soglia, alchemica prima che sociale, sicuramente morale. Come reagire al carcere è il problema concreto di chi deve confrontarsi con esso. La maggioranza dei toccati finisce per soccombere: subisce l’abbrutimento, si adatta, vittima e complice al tempo stesso. È il destino che tocca a coloro che erano stati predisposti all’errore e alla colpa già prima, nell’arena di questa società che rinfaccia ogni suo dono. Questo tipo di detenuto è l’immagine-strofinaccio del colpevole, usata per pulire la faccia sporca del finto innocente. Abbiamo poi una categoria di persone che tentano di sottrarsi al destino di vittime del carcere mobilitando tutte le loro risorse materiali (per esempio la corruzione) e intellettuali (per esempio il pentimento o il tradimento: liberi loro in cambio di tanti altri da punire). Non è questione di buona o cattiva fede. La stessa “legislazione premiale”, che pure offre diritti e speranze, in realtà è soltanto uno strumento di manipolazione e controllo dei detenuti, costretti a vendersi per un’illusione di libertà da cui non si è certo elevati, ma si è senza colpa e senza scampo condannati. E tra queste condanne accessorie perché non basta il carcere e la pena, c’è anche la parola, il racconto, che deve essere consono a quanto richiedono giudici, direttori, psicologi, educatori, assistenti sociali, giornalisti, politici, religiosi: tutta questa gente per bene che ha bisogno di sentirsi rassicurata, e lodata, nella sua bontà…Ne fanno testo e prova gli infiniti libri e le storie e le interviste ed i film sul carcere, dove piccoli delinquentelli e grandi criminali si confessano, accusano e si scusano. E così la verità del carcere e della pena, il comunicare il carcere e la pena, vengono minati da un’ineludibile ambiguità: da una parte sono difesa e discorso, dall’altra è il tradimento della propria natura più intima. Anche se attacca la società carceraria, la parola dei detenuti denuncia loro stessi insieme al loro bisogno di libertà – condizionata dai tanti dominatori e manipolatori dei corpi e delle coscienze! L’altro modo di resistere al carcere è quello di conservare la propria identità, di restare attaccato a ciò che ti ha fatto condannare, non tanto agli atti quanto alla personalità, all’icona del delinquente, dipinta da mani non umane. Conservare la propria identità trasgressiva significa testimoniare che il carcere non riesce a umiliarti, ma anche gridare che la società tutta continua a essere sbagliata: chi paga per la propria diversità irriducibile lo dimostra! Persino gli effetti negativi (divieti, punizioni, censure, torture, il doversi fare la galera fino all’ultimo giorno – fosse pure quel 31 dicembre 9999 che per le necessità dei tabulati elettronici ha sostituito il “fine pena mai” dell’ergastolo) possono essere capitalizzati: come coscienza, fratellanza, solidarietà, quella solidarietà nel carcere e nella pena che resta a volte quando tutto il resto è ormai perduto – e che può ancora tutto salvare. Certo è difficile stabilire il confine tra orgoglio e amor proprio da una parte e crescita di una consapevolezza umana dall’altra. Difficile soltanto sul piano delle generalizzazioni, caso per caso si vede bene. Perciò lo strepito di chi accusa che non è giusto concedere ai prigionieri la parola o s’indigna perché un prigioniero non dichiari di vergognarsi di se stesso e non chieda perdono a una società che continua a sembrargli ingiusta, è scandalosamente deprimente. È un segno dell’arroganza brutale di uomini che si credono liberi e invece sono più prigionieri di tutti, prigionieri di sentimenti meschini che portano a pretende abiure e penitenzialismi in cambio di una libertà tanto vana quanto effimera… Da tutto questo nasce l’urgenza della parola come via di scampo tra l’infamia e il nulla, come sogno o delirio o preghiera o sghignazzo…È una comunicazione necessaria, quella che nasce in condizioni simili. Necessaria per noi, per cercare di liberare almeno la parola e la voce, e anche per loro, per quelli che si credono liberi ma non sono completamente accecati dalla loro pretesa di essere dispensatori di verità e giustizia. A loro, e a Henry, Gianvito, Nikola, Saverio, ho provato a rivolgermi dando la disponibilità a questo progetto, già 30 anni fa per l’inaugurazione del Festival teatrale di Santarcangelo, dove un lavoro messo in scena coi miei compagni del carcere di Livorno fu censurato e vietato, scrivevo che c’è sempre chi vuol provare a scendere nella fossa dei serpenti, negli inferi del carcere e della pena: per un brivido d’emozione, per la vanità di accostarsi ai personaggi della cronaca nera, o anche per quelle buone intenzioni di cui è lastricato ogni inferno. Accorgendosi poi che lo sguardo del prigioniero è intollerabile per chi si crede ancora libero: intollerabile come la verità urlata, il ghigno irridente, le epigrafi incancellabili dei ricordi, le ferite inferte a vicenda nella carne e nel cuore. E nulla mi pare che ancor oggi sia cambiato, in questo Film Festival, con questo “Corpo dei giorni,” questo tentativo di snidare la serpe, di ascoltare i ringhi di un vecchio come rito di passaggio oltre i territori delle illusioni e delle disperazioni, per raggiungere l’impervia interiorità della propria coscienza fuggiasca. E sempre incombente la censura, i divieti, con una malcelata nostalgia dei roghi dei libri, e per noi, i maledetti, i reprobi, i criminali, i fascisti. Da seppellire in terra sconsacrata, come gli eretici, come gli attori, come gli ergastolani. O più banalmente da tenere lontani che non disturbino lo sguardo e la coscienza, che non disturbino lo spettacolo, ad esempio rifiutandomi la licenza per venire a vedere questo lungometraggio. Sì, ti offrono parole, l’ascolto, il dialogo. Un’occasione preziosa, un’arma brillante, sicura per confrontarti col carcere, con la società, col tuo passato, ma prima te ne hanno misurata la lama, spezzata la punta, ottuso il filo! Parlare allora è difficile, l’ansia di un fiato che si spezza, il gesto di ritirare, trattenere la parola già detta. Uscito dal rifugio sicuro della tua solitudine, del tuo silenzio, con gli occhi a cercare altri sguardi, le telecamere puntate sul volto, ti vedono barcollare mentre cerchi di sfuggire al destino scontato, a girare impazzito nel cerchio delle storie e dei ricordi, a volte forzandolo e sparire verso un mondo diverso, che poco alla volta rimanda dei suoni, colori, passioni, sogni di vita barattati con le lunghe ombre di un ieri che è duro a morire. Una vita che si rappresenta e si racconta, “giocando” anche a fare il cattivo. Per loro non conta! Ed ecco che ti colpiscono: c’è sempre chi ha capito, studiato, stabilito, e dettato a sentenza! Una condanna in effige, in un video, in un gioco di immagini e voci rubate, negate, distorte. Resta comunque l’impronta di una fede e una storia, un’eco che domani qualcuno forse coglierà. Ma le scimmie della rivoluzione hanno vinto, si sono assise ai piedi degli scranni del potere e in cambio di incarichi e prebende hanno ammonito che l’unica saggezza rimasta era l’abiura, la resa, l’ipocrisia. E pochi siamo rimasti, noi che siamo riusciti a sopravvivere alla violenza e al carcere, e in un certo senso a noi stessi. Eppure tutto non è stato invano, restano le cicatrici nella memoria e nel cuore, i segni di un cammino che molti hanno pagato con la vita, io sto pagando con la mia libertà. Ma c’è una continuità da assicurare, c’è ancora un anello da aggiungere alla catena del sacrificio. E non chiedetemi perché: non saprei rispondere altro che “perché bisogna”, perché questa è pur sempre la parte migliore che ho scelto per me! Come la parte che ho giocato in questo video, comunque lo vediate!”