Ricordo ancora, oserei dire con una certa stima e referente affetto, il professore di greco al liceo classico. Devo a lui “la folgorazione sulla via di Damasco” se d’istinto presi la decisione di divenire insegnante. Ed è una scelta di cui certo non mi pento, anche se ho dovuto faticare a realizzarla per tutta una serie di circostanze esterne (la fama in negativo che s’è rinnovata inesausta e menzognera nell’anniversario del 12 dicembre), ma a me basta pensare ad un carattere inquieto ed irrequieto.
Basta leggere a ritroso i miei libri – dal recentissimo Stile ribelle alla raccolta di poesie dal titolo emblematico (Nietzsche docet!) Inattuale, ad esempio – per fotografare il tipo umano dedito all’insofferenza… Dicevo del professor Morelli e delle sue affascinanti e coinvolgenti lezioni sulla nascita della tragedia ove spazio e tempo si dilatavano e raccoglievano come in magico caleidoscopio immagini emozioni idee le più distanti in apparenza. Ed io, sedicenne con i capelli ostili al pettine e occhiali dalla montatura spessa, fantasticavo con gli eroi cari alla mia adolescenza e l’incontro tra lo spirito dionisiaco ebbro e danzante con lo spirito apollineo dedito alle belle forme. Intanto Morelli ci teneva a ricordare il valore del suo maestro, il grecista e latinista, rettore poi dell’università di Bologna, Goffredo Coppola.
Quel Goffredo Coppola, piccolo e minuto, primo della lista che Walter Audisio aveva stilato su un foglietto dei quindici fedelissimi del Duce da fucilare lungo la spalletta del lago di Como dopo essersi vantato d’aver eseguito la condanna a morte del Duce e di Claretta Petacci (oggi sappiamo che fu una delle tante “patacche” rifilate ad arte in quei giorni feroci e terribili). In Rappresentazioni in nero gli ho dedicato il capitolo da me curato in quell’antologia di figure esemplari, come il pittore Mario Sironi o il filosofo Ugo Spirito, o meno conosciute come lo squadrista e poi scrittore Marcello Gallian e appunto Goffredo Coppola. Qui voglio solo ricordare l’immagine di serenità che diede di sé, nell’approssimarsi di un destino ineludibile e crudele, a coloro che lo videro e conversarono con lui negli ultimi mesi e giorni della Repubblica. Così annota Giorgio Pini e lo stesso fa Bruno Spampanato.
Sono certo che rispondeva ad un intimo sentire e radicato convincimento, da stoico, quel prendere le distanze da un mondo orrido che già pregustava la vittoria, anche essa “patacca” coriacea e ostinata, e, al contempo, fedele a un mondo che andava sì frantumandosi ma non per questo era meno degno e gli era meno caro. Una lezione di vita; una lezione di stile. Un ulteriore conferma come, oltre e contro la storia, c’è qualcosa che permane, a cui affidare, noi pochi e fortunati, lo stare sulla prima linea di una trincea ideale – faccia al sole e in culo al mondo.