Dare forma al pensiero

 

Dare forma al pensiero

Vi fu, un tempo, una lunga e sanguinosa guerra: solo due giovani sovrani, un uomo e una donna, alleati per necessità, uscirono vincitori. Oltre, solo macerie e il mondo intero da spartire. I popoli tutti vennero così assoggettati, un poco alla volta, quasi fino ai confini della terra. I due ex-alleati convivevano così come “buoni nemici”, ma un gigantesco muro fu eretto a dividere i due regni.

Per assicurare pace e prosperità all’interno dei propri confini, l’uno si prodigò nello sciogliere molti nodi che ancora costituivano la struttura del vivere sociale, spingendo verso una dimensione che appariva sempre più libera ed egualitaria. L’altra compì ogni sforzo per allontanare i fantasmi di una morale stringente e oppressiva, liberando così, o almeno questo pensava, le energie creative del suo popolo. Tuttavia questo non era ancora sufficiente. Nel centro dei due regni prese forma l’opera più ingegnosa e sottile: il “Grande Consiglio della Narrazione”, le cui sedi via via si diffusero fin nelle regioni più lontane. Fini oratori e compassati giullari elaboravano le nuove regole e consuetudini sociali in racconti e brevi aforismi. E agli oratori si aggiunsero poi i pittori, gli scultori e ogni genere d’artista. E i pensieri si fecero immagini. E le immagini generarono un mondo, incarnazione perfettissima del loro mondo ancora imperfetto, ed essi non seppero più se abitassero il mondo reale o quello immaginario, o forse per loro erano ormai la stessa cosa. E per rinforzare ancor meglio l’unità interna, i due popoli coltivavano la sempreverde pianta dell’odio vicendevole, anche questo ben irrobustito dal concime delle funamboliche narrazioni. Un poco alla volta, tuttavia, qualcuno si rese conto che esse non solo non si contraddicevano, ma addirittura poggiavano sulle stesse fondamenta e parevano rafforzarsi a vicenda. Dall’odio, si passò alla “civile diffidenza”, ma furono i due sovrani a compiere il gesto che nessun altro poteva compiere. Il grande muro venne abbattuto e il trono unificato in laiche nozze. Dall’alto, tutto ormai conduceva verso una maestosa sintesi ben divulgata dai maestri della narrazione, mentre fra il popolo permanevano ancora lotte faziose tra alcune parti. Scaramucce quasi agevolate, perché, si sa, un po’ di scontro dialettico dà l’impressione di un certo dinamismo sociale e di vitalità di pensiero.

L’impero così riunito aveva esteso i suoi domini quasi sull’intero pianeta; al di là dei suoi confini, nelle terre ancora libere, vivevano i senza nome, gruppi di raminghi che conservavano, seppur corrotto, il mistero del sacro fuoco e della parola vivificante. Per molto tempo dimorarono nell’ombra: di loro restavano storie che parevano quasi leggende. L’impero non interferiva nelle loro vite, tanto quanto loro non influivano sulla vita dei suoi sudditi.

Anche la vita dei regni, però, invecchia e si piega, proprio quando sembra eterna. Il “Grande Consiglio della Narrazione” non aveva più lo slancio di un tempo e piccoli malumori iniziarono a serpeggiare fra il popolo. Si racconta anche che furtivi incontri vi erano stati fra alcuni raminghi e gruppi di sudditi. L’ira dei sovrani esplose tremenda e i fedeli gendarmi furono inviati in ogni landa armati sino ai denti a stanare i dissidenti e le spie o a ricacciare, se non ad uccidere, i raminghi intrufolatisi clandestinamente. La purezza del celeste impero non poteva essere insudiciata da vili impostori! Lo scontro impari sarebbe volto ad un finale scontato, ma eludendo e disorientando le truppe imperiali i raminghi scompaginarono i piani dei regnanti. Da oltre la frontiera, le notti iniziarono a giungere canti sconosciuti e voci intonavamo poemi di una bellezza mai udita. E poi sorsero palazzi con statue e dipinti, il cui splendore abbagliava più del sole in pieno giorno. Molti sudditi accorrevano dalle città per ammirare tali meraviglie: videro e credettero e infine si unirono ai raminghi. Ma chi, dentro i confini dell’impero, non seppe cedere a cotanta bellezza divenne cieco o sordo: come per un divino sortilegio. La rabbia divenne follia e gli uomini finirono per sterminarsi l’uno contro l’altro. Fu così, che dalle macerie di un triste impero, le avanguardie di un nuovo regno salutarono il giorno che era là da venire.

Perdonando le non poche licenze poetiche, speriamo che abbiate colto, fuor di metafora, il riferimento alla nostra epoca, la triste modernità che tutti ci attanaglia. E dal Salone del Libro, al Festival di Cannes, ci auguriamo che finalmente si aprano gli occhi sulla miserevole situazione in cui la cultura e l’arte versano da troppo tempo, anche a causa del nostro disinteresse. La vera cultura deve dunque farsi arte, il pensiero prendere forma, trasformandosi in immagine viva che occupi lo spazio della comunità. Con le arti tutte, finanche il cinema, si deve riprendere la strada del Canone universale per costruire un nuovo immaginario, un nuovo mondo, di vita piena e non più di morte.

 

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