Ciò risulta chiaramente anche se si considera il modo col quale si conserva il dominio dei tiranni. Questo infatti non si conserva con l’amore, dal momento che poca o nulla è l’amicizia dei sudditi verso il tiranno, come risulta dalle cose già dette prima. Né i tiranni possono fare affidamento sulla fedeltà dei sudditi. Infatti non si trova in molti una virtù di fedeltà così grande che li trattenga dallo scuotere, avendone la possibilità, il giogo di una servitù indebita. Anzi, secondo l’opinione di molti, non è da reputare contrario alla fedeltà qualsiasi tipo di resistenza alla perfidia del tiranno. Dunque resta che un governo tirannico si regge solo sul timore; perciò i tiranni si sforzano in tutti i modi di essere temuti dai sudditi. Ma il timore è un debole fondamento. Infatti coloro che sono tenuti sottoposti per mezzo del timore, se si offre l’occasione in cui possono sperare l’impunità, insorgono contro i loro capi con tanto maggior ardore quanto più contro la propria volontà erano trattenuti soltanto dal timore: come fa l’acqua, la quale, se viene chiusa con forza, appena trova uno sbocco irrompe con maggior impeto. Lo stesso timore non è senza pericolo, poiché molti per il troppo timore cadono nella disperazione. La disperazione della salvezza poi spinge a tentare audacemente qualunque cosa. Dunque il dominio del tiranno non può durare a lungo.
Questo inoltre è dimostrato più dagli esempi che dai ragionamenti. Se infatti si considerano le gesta degli antichi e gli avvenimenti moderni, difficilmente si troverà che il dominio di un qualche tiranno è durato a lungo.
Perciò anche Aristotele nella sua Politica, dopo aver enumerato molti tiranni, dimostra come il loro dominio sia finito in breve tempo; alcuni di essi, tuttavia, comandarono più a lungo, perché non eccedevano molto nella tirannide, ma sotto molti aspetti imitavano la moderazione regale.
La cosa finalmente è resa ancora più chiara dalla considerazione del giudizio divino. Dio infatti come è detto in Giobbe (XXXIV, 30), «fa regnare l’uomo ipocrita per i peccati del popolo». Ora, nessuno può essere detto più veracemente ipocrita di chi assume l’ufficio di re, e poi si comporta da tiranno. Infatti viene chiamato ipocrita colui che rappresenta la persona di un altro, come capita di solito negli spettacoli. Così dunque Dio permette che i tiranni governino, per punire i peccati dei sudditi. Questa punizione nelle Scritture viene chiamata di solito ira di Dio. Perciò per bocca di Osea (XIII, 11) il Signore dice: «Nel mio furore vi darò un re». Infelice è poi il re che viene dato al popolo nel furore di Dio. Il suo dominio infatti non può essere stabile: perché «il Signore non si dimenticherà di avere pietà e nella sua ira non cesserà dalle sue misericordie» (Salm, 76, 10); anzi per bocca di Gioele (II, 13) è detto che «è paziente e molto misericordioso, e predisposto a condonare il peccato». Dio dunque non permette che i tiranni regnino a lungo, ma dopo aver scatenato la tempesta nel popolo per mezzo di essi, con la loro cacciata fa ritornare la tranquillità. Perciò nell’Ecclesiastico (X, 17) si dice: «Dio ha distrutto i troni dei condottieri superbi e al loro posto ha fatto sedere i miti».
Dall’esperienza risulta anche che i re con la giustizia si procurano più ricchezze che i tiranni con la rapina.
Infatti, poiché il dominio dei tiranni dispiace alla moltitudine soggetta, essi hanno bisogno di avere molte guardie per essere sicuri dei loro sudditi; e per queste guardie debbono spendere molto più di quanto possano rapinare ai sudditi. Invece il dominio di quei re, che piacciono ai sudditi, ha come guardie tutti i sudditi, per i quali non occorre spendere; anzi questi talvolta nelle necessità donano spontaneamente ai re molto di più di quanto i tiranni possano rapinare ai sudditi; e così si adempie quello che dice Salomone (Prov., XI, 24): «Gli uni (cioè i re) dividono le proprie cose beneficando i sudditi, e diventano più ricchi; gli altri (cioè i tiranni) rapinano le cose non proprie, e sono sempre nel bisogno». Così avviene per giusto giudizio di Dio, che coloro i quali ingiustamente ammassano ricchezze le dissipino inutilmente, oppure che giustamente ne vengano privati. Come infatti dice Salomone (Ecclesiaste, V, 9), «l’avaro non si sazierà di denaro, e chi ama il denaro non ne raccoglierà il frutto»; anzi, come è detto nei Proverbi (XV, 27): «Chi segue l’avarizia turba la propria casa». Ai re, invece, che cercano la giustizia le ricchezze sono date in più da Dio, come a Salomone, il quale, avendo chiesto la sapienza per giudicare, ricevette la promessa di abbondanti ricchezze.
Della fama poi sembra superfluo trattare. Chi dubita infatti che i buoni re non solo in vita, ma ancora di più dopo la morte, in un certo qual modo vivono nelle lodi degli uomini, e sono rimpianti; mentre il nome dei malvagi, o viene subito dimenticato o, se furono eccezionali nella malvagità, è ricordato con detestazione? Perciò Salomone (Prov., X, 7) afferma: «La memoria del giusto è in benedizione, mentre il nome degli empi marcirà», perché, o svanisce, o rimane in cattivo odore.