De Regimine Principum [19]: il principato politico e il suo modo di governare
Non solo però è necessario che il re sia ben fornito di ricchezze, ma anche di ministri. Perciò anche il grande re Salomone nel libro prima citato dice di se stesso (11, 7); «Ho posseduto schiavi ed ancelle e una grandissima famiglia».
È chiaro poi che quanto si possiede rientra nel dominio del possessore; ecco perché incidentalmente dobbiamo qui distinguere vari tipi di dominio. Infatti Aristotele nella sua Politica pone due tipi di principato (ciascuno dei quali ha i suoi ministri, per quanto nel V libro della Politica ne enumeri di più; come sopra abbiamo visto e come in seguito si chiarirà meglio), cioè il principato politico e quello dispotico. Si ha il principato politico quando una regione, una provincia, una città, oppure un castello, sono governati da una o da più persone secondo i propri statuti, come avviene nelle regioni d’Italia e soprattutto a Roma, dove per lo più fin dalla fondazione della città si è governato attraverso senatori e consoli.
Il dominio di costoro deve avere una certa affabilità, per il fatto che c’è una continua alternanza di cittadini, ossia di estranei: come riguardo ai Romani è scritto nel libro dei Maccabei (1, 8) là dove si dice che anno per anno affidano a un uomo il compito di comandare su tutta la loro terra. Perciò in un dominio di questo tipo c’è una duplice ragione per cui i sudditi non possono essere rigidamente disciplinati, come invece accade nel dominio di un re.
La prima ragione si desume dalla parte di chi comanda, poiché il suo governo è temporaneo. Infatti la sua sollecitudine verso i sudditi è diminuita dalla considerazione che il proprio dominio finirà in un tempo tanto breve. Ecco perché i giudici di Israele, che esercitavano il loro giudicato politicamente, nel giudicare furono più moderati dei re che vennero dopo. Perciò Samuele che fu giudice di quel popolo per un certo periodo, volendo dimostrare che il suo governo era stato politico, e non regale, come essi avevano poi scelto, così parla ad essi: «Parlate di me davanti a Dio e al suo Consacrato, se io ho mai preso il bue di qualcuno, o l’asino; se ho calunniato qualcuno; se ho oppresso mai qualcuno; se ho preso mai un dono dalle mani di qualcuno». E questo certamente non lo fanno coloro che hanno il dominio regale, come in seguito sarà chiarito e come il detto profeta preannunciava nel primo libro dei Re.
Di più: il sistema di governo negli stati dove il dominio è politico, è mercenario; infatti ai capi viene assegnato un compenso. Ma dove ci si prefigge come fine un compenso non si pensa esclusivamente al governo dei sudditi, e così di conseguenza si tempera il rigore della correzione. II Signore infatti dice di costoro (Giovanni, X,12): «Il mercenario è colui che non è pastore» – chi non ha cura delle pecore, perché vi è preposto solo temporaneamente – «vede venire il lupo e fugge». Il mercenario fugge perché è mercenario, perché se per lui il fine del governo è la mercede, pospone i sudditi a se stesso.
Per questa ragione gli antichi magistrati romani, come scrive Valerio Massimo, tenevano le cariche dello stato a spese proprie, come Curio, Fabrizio e molti altri: questo li rendeva più audaci e solleciti nella cura dello Stato, con più impegno e maggiore rendimento. In essi si verificava l’affermazione di Catone, che Sallustio riferisce nel Catilinario: «La Repubblica, da piccola che era è diventata grande, perché in essi vi fu operosità in patria, un giusto comando fuori, l’animo libero nel deliberare, e non ottenebrato né da colpa, né da capriccio»[1].
La seconda ragione per cui il dominio politico deve essere moderato ed esercitato con moderazione si desume da parte dei sudditi, essendo la loro disposizione naturale adatta a quel dato regime. Infatti Tolomeo nel Quadripartito prova che le regioni degli uomini sono distinte secondo le varie costellazioni per quanto riguarda il loro regime, essendo – sempre secondo Tolomeo – circoscritto il comando della volontà sul potere delle stelle. Perciò le regioni dei Romani sono da lui poste sotto Marte e quindi sono meno soggiogabili.
Per la stessa ragione questo popolo sarebbe da ritenersi non avvezzo a contenersi entro i propri confini e refrattario alla sottomissione, se non quando non possa resistere; e poiché è intollerante dell’arbitrio altrui, di conseguenza è anche diffidente verso chi sta più in alto. Dei magistrati romani nessuno, come è scritto nel libro di Maccabei (1,8), portava il diadema o indossava la porpora: e si accenna pure a un effetto di questa riservatezza, ossia al fatto che tra di essi non c’è né malevolenza né invidia. Dunque essi governavano la repubblica con una certa mitezza d’animo, come la natura dei sudditi di quella regione richiede, e con un atteggiamento umile; poiché, come dice Cicerone nelle Filippiche, «nessuna difesa armata è superiore all’amore e alla benevolenza dei cittadini; è di questa che un governante deve essere munito, non di armi»[2]. Come riferisce Sallustio, Catone afferma la stessa cosa degli antichi padri romani.
Inoltre porta allo stesso risultato, ossia alla spregiudicatezza dei sudditi, sia la speranza di poter togliere il potere ai governanti, sia quello di poter comandare a loro volta a tempo opportuno, rendendo audaci nel rivendicare la libertà, e a non piegarsi ai governanti. Perciò il governo politico deve essere mite.
Di più: interviene un modo di governare già fissato, perché è basato su leggi comunali o municipali, dalle quali chi governa non può prescindere. Per tale motivo la prudenza di chi comanda, dal momento che non è libera, viene meno, imitando sempre meno quella divina.
E, quantunque le leggi traggano origine dal diritto naturale, come Cicerone dimostra nel De legibus, e il diritto naturale derivi dal diritto divino, come attesta il profeta Davide: «Il lume del tuo volto è impresso su di noi, Signore», tali leggi sono tuttavia inadeguate per i casi particolari, a cui il legislatore non ha potuto provvedere, non conoscendo i sudditi futuri. Da questo deriva al dominio politico una certa carenza, dal momento che il reggitore politico giudica il popolo soltanto in base alle leggi, cosa cui invece il dominio regale supplisce; poiché, non essendo questo impedito dalle leggi, decreta per mezzo della legge che sta nel cuore del principe. Ecco perché il dominio regale imita maggiormente la provvidenza divina, che ha cura di tutti, come è scritto nel libro della Sapienza.
Abbiamo dunque chiarito come sia il principato politico e il suo modo di governare. Ora dobbiamo esaminare il principato dispotico.
[1] Sallustio, De Coniuratione Catilinae, citazione riportata dall’autore o dal traduttore in maniera imprecisa, forse si tratta del cap. 51.
[2] Citato nel testo ma non indicato né reperito.