De Regimine Principum [22]: in qualsiasi regno e dominio è necessaria moneta propria

 

De Regimine Principum [22]: in qualsiasi regno e dominio è necessaria moneta propria

Terminati questi argomenti bisogna trattare della moneta, nel cui uso è regolata la vita dell’uomo, e così, per conseguenza, ogni tipo di governo, e specialmente il regno, per i vari proventi che ricava dalla moneta.

Perciò anche il Signore, interrogando i Farisei che cercavano di ingannarlo, disse: «Di chi è quest’immagine e questa iscrizione?». E, avendogli quelli risposto: «Di Cesare», ritorse su di loro la risposta al quesito, dicendo: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio», come se la moneta stessa fosse la causa del pagamento del tributo, come del resto avviene il più delle volte.

Quanto poi alla materia della moneta e alla necessità per un re di averne in abbondanza, ne abbiamo già trattato sufficientemente prima[1]. Ma ora ne trattiamo in quanto è una misura per mezzo della quale la sovrabbondanza e la scarsità sono riportate al «mezzo», come dice Aristotele nel quinto libro dell’Etica. La moneta infatti fu trovata per risolvere le liti nel commercio e perché ci fosse una misura negli scambi. E, quantunque vi siano molti tipi di scambio, come sappiamo da Aristotele nel I libro della Politica, fra tutti il più pratico è quello per cui si dice che sia stata trovata la moneta[2].

Perciò anche l’organizzazione politica di Licurgo – che diede per la prima volta ai Parti e ai Lidi delle leggi in cui era proibita la moneta ed era permesso soltanto il reciproco scambio delle merci – è disapprovata da Aristotele, come appare chiaramente dalle cose già dette. Perciò è proprio lui che nel medesimo libro dell’Etica conclude che la moneta fu istituita per la necessità dello scambio, perché tramite essa il commercio è reso più rapido e nello scambio è tolta materia di litigio. Ed essa l’abbiamo fin dal nostro padre Abramo che visse molto tempo prima di Licurgo e di tutti i filosofi. Perciò di lui è scritto nel Genesi che comperò un campo per la sepoltura dei suoi al prezzo di 400 sicli di moneta corrente e approvata. Ma, quantunque la moneta propria sia necessaria in ogni tipo di regime, lo è specialmente in quello monarchico; e le cause di questa necessità sono di due specie.

La prima di tali cause si desume dal re, l’altra invece si desume dal popolo che gli è soggetto. Stando alla prima, la moneta propria, ossia quella da lui coniata, è un decoro per il re e il regno (e per ogni altro regime politico), poiché su di essa è rappresentata l’immagine del re, come si è detto sopra di Cesare; perciò in nessuna cosa ci può essere tanta celebrità della sua memoria, per il fatto che niente passa con tanta frequenza per le mani degli uomini che riguardi il re o qualunque signore, quanto la moneta.

Inoltre la moneta, in quanto è regola e misura delle cose venali, mostra l’eccellenza del re, perché la sua immagine sulla moneta è la regola degli uomini nei loro commerci. Ed è per questo che è chiamata moneta, per il fatto che ammonisce la mente; perché – essendo essa la misura giusta – non ci sia frode fra gli uomini; cosicché – come afferma Sant’Agostino trattando questo argomento -, l’immagine di Cesare sia per l’uomo come l’immagine di Dio. Viene chiamata anche nomisma perché è contrassegnata dai nomi e dall’effigie dei prìncipi, come spiega Sant’Isidoro. Da tutto ciò appare chiaramente che la maestà dei dominanti rifulge per mezzo della moneta: ed è per questo che le città, i prìncipi, o i prelati, chiedono agli imperatori, per la propria gloria, di avere una loro moneta particolare.

Ancora: la moneta propria è vantaggiosa per chi comanda, perché – come si è detto prima – con essa si calcolano i tributi e ogni altro tipo di tassazione che si debba fare nel popolo, come era già ordinato dalla legge divina riguardo alle oblazioni e a qualunque riscatto in luogo del sacrificio.

Di più: la sua coniazione per autorità del principe porta a lui vantaggio; perché, come impone il diritto delle genti, nessun altro può coniare sotto quella medesima figura e iscrizione.

In questa coniazione, però, quantunque gli sia lecito esigere ciò che gli spetta nel battere moneta, ogni principe, o re deve essere giusto, sia nel cambiare, sia nel diminuire il metallo, perché ciò può recare danno al popolo, per il fatto che la moneta è misura delle cose venali, come abbiamo già detto: perciò cambiare la moneta è come cambiare la bilancia, o un qualsiasi peso.

Quanto poi questo dispiaccia a Dio sta scritto nei Proverbi (XX,10): «Peso e peso, misura e misura, sono entrambi abominevoli presso Dio». E a questo proposito il re degli Aragonesi venne fortemente ripreso dal papa Innocenzo, perché aveva cambiato la moneta, svilendola a danno del popolo. E perciò sciolse il figlio dal giuramento con cui si era obbligato a mantenere la moneta del padre, e gli comandò di ripristinare l’antica moneta.

Inoltre le leggi concernenti le monete favoriscono i mutui e ogni altro genere di contratti. Infatti esse comandano che i mutui siano pagati e che i contratti siano osservati per ogni misura di quantità e di qualità secondo la moneta del tempo. Si deve dunque concludere che per ciascun re è necessaria una moneta propria.

Anche in rapporto al popolo è necessario che il re abbia moneta propria, come risulta già da quanto è stato detto. In primo luogo perché è la misura più spedita negli scambi. Secondo, perché è più sicura tra i popolani. Infatti sono molti quelli che non conoscono altre monete e, poiché sono ingenui, facilmente potrebbero essere frodati; il che è contro il buon ordine del governo regale. A ciò provvidero gli imperatori romani. Così la storia ci dice che al tempo di nostro Signore Gesù Cristo, in segno della soggezione ai Romani c’era una sola moneta in tutto il mondo, sulla quale era rappresentata l’immagine di Cesare, subito riconosciuta dai Farisei interrogati dal Signore Gesù Cristo per svelare la loro malizia. E questa moneta valeva dieci denari usuali, e ognuno doveva pagarla ai gabellieri dei suddetti prìncipi, oppure a coloro che ne facevano le veci nelle province, nelle città, o nei castelli.

Ancora: una moneta propria è più vantaggiosa. Infatti, quando negli scambi vengono usate monete straniere, è necessario ricorrere all’arte del cambio, poiché tali monete nelle regioni straniere non conservano il valore che hanno nelle proprie; e questo non può accadere senza recare qualche danno. Ciò si riscontra specialmente nelle regioni dei tedeschi ed in quelle circostanti; che perciò sono costretti, quando viaggiano, a portare con sé una grande quantità d’oro e d’argento, e ne vendono la quantità che occorre per l’acquisto delle cose venali.

Perciò Aristotele nel IV libro della Politica, distinguendo i vari tipi di ricchezza, ossia l’arte monetaria, la numismatica, lo scambio per usura e l’arte del coniare, soltanto la prima dice naturale, perché ordinata allo scambio delle cose naturali; e questo può farlo la moneta propria e nessun altro, come risulta da quanto è stato già detto. Perciò raccomanda soltanto questa, disprezzando le altre, delle quali si parlerà ancora in seguito.

Dunque è necessario concludere che in ogni tipo di governo, e specialmente in quello monarchico, per la conservazione del potere è necessario disporre di moneta propria, sia a vantaggio del popolo, sia a vantaggio del re, e a vantaggio di qualunque altro tipo di governo.

 

 

[1] Nell’opera integrale San Tommaso dedica uno spazio più ampio alla moneta e al denaro.

[2] Scrive Aristotele (Politica, libro I, cap. 9): “Perché quando l’aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò di cui avevano bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di necessità l’uso della moneta. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle necessità naturali e quindi per effettuare il baratto si misero d’accordo di dare e prendere tra loro qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile a usarsi nei bisogni della vita, come il ferro, l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu impresso come segno della quantità.”

 

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