De Regimine Principum [23]: il re è tenuto alla previdenza a favore dei poveri
Vi è poi anche un’altra cosa che riguarda il buon governo di un regno, di una provincia, di una città o di qualsiasi altro dominio: cioè che il capo dello Stato con l’erario comune provveda ai bisogni dei poveri, degli orfani e delle vedove, e assista i forestieri e i pellegrini.
Infatti, se una natura qualsiasi non viene mai a mancare nelle cose necessarie – come scrive Aristotele nel terzo libro de Il cielo e il mondo, molto meno dovrà farlo l’arte che imita la natura. Fra tutte le arti, poi, quella di vivere e di governare è più alta e più ampia, come insegna Cicerone nelle Disputazioni tuscolane. Dunque i re e i prìncipi non devono abbandonare i bisognosi nelle necessità, ma anzi li devono aiutare.
Inoltre i re e i prìncipi fanno le veci di Dio in terra: per mezzo di essi, quali cause seconde, Dio governa il mondo. Perciò anche il profeta Samuele, essendo stato rifiutato nel suo potere, lamentandosi davanti a Dio, ebbe questa risposta: che il popolo di Israele non aveva disprezzato lui, ma Dio stesso, di cui lui faceva le veci.
E nel libro dei Proverbi (VIII, 15) sta scritto: «Per me regnano i re, e i legislatori decretano il giusto». Ma Dio si cura in maniera particolare dei poveri, per supplire alle mancanze della loro natura. Perciò la provvidenza divina nei confronti dell’indigente si comporta come un padre nei confronti dei figli menomati: di essi si preoccupa di più perché il loro bisogno è più grande. Per questo il Signore considera come fatto a sé in particolare ciò che viene fatto al povero, come attesta egli stesso, dicendo: «Tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli, l’avete fatta a me» (Matteo, XXV, 40).
Perciò prìncipi e prelati sono tenuti a supplire a questa indigenza dei poveri in quanto fanno le veci di Dio in terra, come dei padri che il dovere obbliga ad aiutare i sudditi. Perciò, come dice Aristotele nell’Etica, devono avere una cura particolare nei loro confronti, al fine di soccorrerli. Questa sollecitudine ebbe il re macedone Filippo nei confronti di Pizia il quale, prima, come scrive Vegezio nel terzo libro De re militari, gli era ostile. Sentendo che questi, pur essendo nobile, soffriva nella miseria con le sue tre figlie, chiedendo a coloro che lo informavano di questo se fosse meglio tagliare via la parte malata del corpo, o curarla, lo chiamò famigliarmente a sé, lo rifornì con denaro preso dalle sue ricchezze personali, e da allora in avanti lo ebbe fedelissimo.
Inoltre ai re e ai prìncipi spettano azioni generali e la cura universale dei sudditi; ma, poiché l’uomo da solo non basta alle proprie azioni, accade necessariamente che essi manchino in molte cose; perché tali azioni, che sono governare il popolo, giudicare, provvedere a ciascuno dei propri sudditi secondo i loro meriti, trascendono le capacità della natura: perciò si dice che il governo delle anime è l’arte delle arti. Ed è davvero difficile che colui che non sa governare se stesso diventi giudice della vita altrui. Perciò il profeta Samuele ordinò a Saul, appena proclamato ed unto re, di aggregarsi alla schiera dei profeti affinché da lì, profetando con essi mediante l’elevazione della mente, per divina ispirazione fosse istruito sulle cose da fare riguardo al governo del popolo. Cosa che avvenne, come risulta dal Libro dei Re (1,10).
Perciò è impossibile che i re e i prìncipi non errino, se non si rivolgono a Colui che tutto governa e che di tutto è il Creatore. Infatti nell’Ecclesiastico sta scritto che i re del popolo di Israele, tranne David, Ezechia e Giosia che furono uomini spirituali e illuminati da Dio, furono tutti peccatori davanti a Dio. Ebbene, a queste carenze si rimedia col merito dell’elemosina donde i poveri ricevono sostentamento; come per bocca del profeta Daniele fu detto a un principe pagano, al re di Babilonia Nabucodonosor, che era supremo monarca di tutto l’Oriente: «Riscattati con elemosine dai tuoi peccati, e dalle tue iniquità con beneficenze ai poveri» (Daniele, IV, 24).
Dunque le elemosine che i prìncipi fanno agli indigenti sono quasi una fideiussione a loro favore presso Dio per il pagamento dei debiti dei peccati, come dice Aristotele della moneta in rapporto alle cose venali. E come la moneta è la misura negli scambi per la vita corporale, così è l’elemosina per la vita spirituale; perciò nell’Ecclesiastico (XVII,18) sta scritto: «L’elemosina dell’uomo è per lui come una borsa ed egli [Dio] tiene conto del favore prestato come della pupilla».
Da queste cose dunque è chiarito a sufficienza come sia opportuno che il re, e qualsiasi altro signore, nel proprio dominio provveda ai poveri con l’erario comune dello Stato, o del Regno. Da questo deriva il fatto che in ogni provincia, città o castello, dai re, dai prìncipi o dai cittadini furono istituiti degli ospizi per risollevare l’indigenza dei poveri: e non solo presso i cristiani, ma anche presso gli infedeli. Questi istituivano case di ospitalità per aiutare i poveri, e le chiamavano case di Giove, – come risulta dal secondo libro dei Maccabei (Cap. VI, 2).
La storia ci racconta anche che Aristotele mandò una lettera ad Alessandro perché si ricordasse della miseria dei poveri, per accrescere la prosperità del suo impero.