De Regimine Principum [28]: i Romani meritarono il dominio per le ottime leggi da essi emanate
C’è anche un’altra ragione per la quale i Romani furono degni di avere l’impero, e cioè lo zelo per la giustizia. In questo modo ebbero la preminenza come per un diritto di natura, dal quale trae origine ogni giusto dominio.
In primo luogo perché, come scrive il medesimo santo Dottore[1], deliberavano per la patria con decisioni libere, dal momento che tenevano fuori dal dominio l’avarizia e anche l’amore del guadagno disonesto, e non erano soggiogati dalla colpa e dal vizio, cose per le quali può andare in rovina un dominio già stabile. Gli uomini erano attratti alla benevolenza verso di loro, cosicché a causa delle loro leggi così giuste si sottomettevano spontaneamente. Perciò lo stesso Apostolo Paolo, essendo troppo vessato e ingiuriato dai Giudei, si appellò a Cesare dinanzi al governatore Pesto in Cesarea di Palestina, e si sottopose alle leggi romane, come ci è raccontato dagli Atti degli Apostoli.
Di che qualità poi erano le loro leggi e come erano giuste, ce ne parlano sempre gli Atti quando raccontano che, trovandosi Pesto a Gerusalemme, andarono da lui i prìncipi dei sacerdoti e i sacerdoti a chiedere la condanna a morte di Paolo; e ad essi Pesto, soggetto alle leggi romane, rispose che non era consuetudine dei Romani condannare o assolvere chicchessia, se non erano presenti gli accusatori e non aveva luogo la difesa per scagionarsi dal delitto. Perciò il medesimo dottore Sant’Agostino nel diciottesimo libro De Civitate Dei dice che «piacque a Dio soggiogare per mezzo dei Romani tutto il mondo, affinchè, unito in una sola società di governo e di leggi, potesse in ogni parte pacificarlo».
Secondo, è dì diritto naturale che chi ha cura di un altro abbia una ricompensa per il fatto che, come è scritto nell’Ecclesiastico (17, 12), «Dio ha affidato a ciascuno di provvedere al suo prossimo». Per questo motivo il diritto permette di appropriarsi delle cose altrui, di sottrarre le spese, di ricevere un premio conforme al merito dell’azione, quando i beni suddetti sono male adoperati da predoni o da altri ladroni. Ciò posto appare chiaro che è conforme alla natura il fatto che il dominio sia concesso per conservare la pace e la giustizia e per eliminare liti e discordie.
Terzo, è compito di chi governa provvedere a che i cattivi siano puniti e i buoni premiati; e in questo compito chi governa deve ricavare il suo guadagno; poiché da questo riceve sovvenzioni e tributi. Perciò, San Paolo, dopo aver spiegato che ogni potere proviene da Dio: «Non v’è potestà se non da Dio», e tutte le altre cose riguardanti il potere contenute in questo brano, infine conclude: «Per questo anche voi pagate i tributi: perché costoro sono ministri di Dio da lui deputati a questo» (Rom., 13, 1). In quanto dunque degli uomini virtuosi ed eminenti per la loro probità si assumono la cura di governare un popolo che manca di un Re e non ha un reggente e lo tengono sottomesso alle leggi, non soltanto si muovono per una sorta di istinto divino, ma fanno le veci di Dio in terra, perché mantengono il popolo in una società civile, della quale l’uomo ha necessariamente bisogno, dal momento che egli è per natura un animale sociale, come dice Aristotele nel primo libro della Politica. Perciò è chiaro, anche da questo punto di vista, che il dominio (dei Romani) era legittimo.
E questo lo prova anche Sant’Agostino nel quarto libro del De civitate Dei; infatti egli dice così: «Una volta allontanata la giustizia, che cosa sono gli stessi regni se non latrocini?». Dunque, supposta questa virtù, appare chiaro che il regno, o qualsiasi altra forma di governo, viene ad essere legittimato. Per provare il suo intento egli porta poi l’esempio di un pirata che si chiamava Dionide. Alessandro Magno, avendolo catturato, gli chiese perché infestasse il mare. Ed egli con sfrontatezza rispose: «Come fai tu per tutta la terra. Ma, siccome io lo faccio su una povera navicella, sono chiamato ladro; tu, invece, che lo fai con una grande flotta, sei chiamato imperatore». Per questa ragione, dunque, ai Romani fu dato da Dio il dominio.
Perciò il medesimo santo Dottore, nel quinto libro della stessa opera, afferma che essi avendo, con le loro leggi giustissime, aspirato quasi per la retta via agli onori, al comando e alla gloria, non hanno di che lamentarsi della giustizia del sommo e vero Dio: infatti hanno ricevuto la loro mercede, dominando con giustizia e governando legittimamente. Quanto grande poi sia stato lo zelo per la giustizia degli antichi consoli romani contro i cattivi è provato da molti fatti. Perciò Sant’Agostino, nel quinto libro dell’opera che abbiamo spesso citato, ricorda che Bruto fece uccidere i suoi figli perché sollevavano discordie nel popolo: quindi a rigore delle leggi vigenti meritavano la morte. In lui, infatti, come dice il Poeta[2], «ebbe il sopravvento l’amore di patria e il grande desiderio di lodi»[3]. Racconta anche di Manlio Torquato, che fece la stessa cosa col proprio figlio, poiché contro l’ordine del padre, spinto da una sorta di ardore giovanile, aveva assalito i nemici; e quantunque fosse riuscito vittorioso, tuttavia, poiché aveva esposto al pericolo l’esercito dei suoi, lo condannò a morte secondo le leggi militari. Lo stesso Santo – Agostino – spiega a questo punto la ragione della sua morte, dicendo: «Affinchè il cattivo esempio dell’ordine trasgredito non costituisse un male più grande del bene della vittoria riportata sul nemico». E Valerio Massimo, sempre riguardo a lui, dice che preferì privarsi del proprio figlio piuttosto che essere indulgente su trasgressioni della disciplina militare. Così dunque appare chiaramente come per lo zelo della giustizia legale i Romani meritarono il dominio.
[1] Si riferisce a Sant’Agostino, precedentemente citato.
[2] Si riferisce a Virgilio.
[3] Citato nel testo ma non indicato né reperito.