De Regimine Principum [35]: differenze fra potere regale e principato dispotico – 2
Tutto ciò risulta ragionevole, se rivolgiamo l’attenzione a qualsiasi cosa creata, e soprattutto al corpo umano; perché, per conservare la parte più nobile, ci priviamo di quella più vile. Infatti amputiamo la mano per salvare il cuore o il cervello, nei quali principalmente risiede la vita dell’uomo. Tale criterio è approvato anche dalla legge evangelica là dove dice: «Se il tuo occhio è per te occasione di scandalo, o anche la mano, o il piede», e questo Sant’Agostino lo interpreta come una graduatoria di uomini, «cavalo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita senza una mano o zoppo che essere gettato nella Geenna del fuoco con due mani e due occhi» (Matt., 18, 8, 9).
Lo stesso si dica per quanto il re può esigere per il bene dello stato, come per la difesa del regno o per qualunque altra causa ragionevolmente pertinente al bene comune del suo dominio; la ragione è evidente. Perché, posto che la società umana è naturale, come è stato già provato, tutte le cose necessarie alla conservazione comune di questa società saranno di diritto naturale. Ora, questo rientra in ciò che abbiamo premesso. Posto dunque un legittimo governo regale, il re può esigere dai sudditi ciò che si richiede al loro bene.
Si deve inoltre notare che l’arte, nella misura in cui le è possibile, imita la natura, come insegna Aristotele nel secondo libro della Fisica. Ma la natura non ha mancanza delle cose necessarie. Dunque neppure l’arte. Così fra tutte le arti, l’arte di vivere è migliore e più grande, come abbiamo accennato sopra e come prova Cicerone nelle Tuscolane, dal momento che le altre arti sono ordinate ad essa. Perciò anche nella necessità del regno, che è diretto alla salvaguardia della vita sociale degli uomini, il re, che è come l’artefice architetto di questa società, non deve avere mancanze, ma supplire ad ogni manchevolezza di detta società.
Pertanto si deve concludere che in questo caso si possono legittimamente imporre esazioni, taglie, censi e tributi, purché non superino la misura del bisogno. Ecco perché Sant’Agostino nel De verbis Domini, spiegando il passo di San Matteo «Date a Cesare quel che è di Cesare[1]», afferma: «Perciò bisogna sopportare ciò che Cesare ordina, tollerare ciò che comanda; ma diventa intollerabile quando gli esattori accumulano la preda»[2]. E poi, spiegando le parole che San Giovanni Battista aveva detto ai soldati: «Non fate violenza né frode a nessuno, ma state contenti delle vostre paghe»[3], scrisse: «Questo si può riferire ai soldati, ai magistrati e a tutti i governanti»[4]. Di fatto chiunque riceve paghe pubblicamente decretategli, se cerca di avere dell’altro, è condannato dalle parole di San Giovanni per frode e violenza. Dunque sotto questo duplice aspetto il principato dispotico si riconduce a quello regale: ma principalmente a causa della colpa per la quale fu introdotta la servitù, come afferma Sant’Agostino nel diciottesimo libro del De Civitate Dei. Infatti, sebbene anche nello stato di innocenza ci sarebbe stato ugualmente il potere, come abbiamo già detto, non avrebbe avuto altro fine che quello di consigliare e dirigere, senza la sete di potere e l’intendimento di sottomettere qualcuno in maniera servile.
Invece le leggi sul potere regale trasmesse al popolo d’Israele dal profeta Samuele furono date in base a questa considerazione: perché questo popolo per la sua ingratitudine e la sua durezza di cervice meritava di udire leggi di quel genere. Talora, constatiamo, quando il popolo non riconosce il beneficio del buon governo, è bene che ci sia la tirannide, poiché questa è uno strumento della giustizia divina. Ecco perché certe isole e certe province, a quanto narra la storia, hanno sempre avuto tiranni a causa della malizia del popolo, perché diversamente, senza la verga di ferro, non potevano essere governate. Dunque in regioni così dissolute è necessario che i re governino dispoticamente; non in conformità con la natura del potere regale, ma in conformità con quello che si meritano i sudditi e della loro caparbietà. E questa è l’argomentazione di Sant’Agostino nel libro di cui abbiamo già parlato. Anche Aristotele nel terzo libro della Politica[5], nel punto dove distingue i vari tipi di regno, mostra che presso talune nazioni barbare il potere regale è completamente dispotico, perché non possono essere governate diversamente. Tale dominio vigeva allora particolarmente in Grecia e presso i Persiani, almeno in rapporto al governo popolare.
Sono queste le conclusioni circa il dominio: ed ecco in che senso il principato dispotico possa essere ricondotto ad esso, e come si differenzi da quello politico; argomento che sarà esposto più chiaramente nel capitolo sul dominio politico.
[1] Vedi nota precedente.
[2] Ibid.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Aristotele, Politica, libro III, 6-7.