De Regimine Principum [5]: come il popolo deve comportarsi per evitare che il monarca diventi tiranno

 

De Regimine Principum [5]: come il popolo deve comportarsi per evitare che il monarca diventi tiranno

Dal momento che si deve preferire il governo monarchico, essendo esso il migliore, e che può avvenire che questo si muti in governo tirannico che è il peggiore, come risulta da quello che abbiamo detto finora, è necessario che il popolo attenda diligentemente a provvedersi un re, in modo da non cadere nella tirannide. Prima di tutto è necessario che come re venga scelto, da chi ha questo compito, un uomo che con ogni probabilità non diventerà un tiranno.

Per questo Samuele, lodando la provvidenza di Dio nell’istituzione del re poteva dire (I Re, XIII, 14): «Dio si cercò un uomo secondo il suo cuore». In secondo luogo bisogna disporre il governo in modo tale da togliere al re già istituito l’occasione della tirannide. Nello stesso tempo bisogna temperare il suo potere in modo che difficilmente possa mutarlo in tirannide. In seguito si vedrà come si possano attuare queste cose. Ora dobbiamo vedere come si può ovviare quando il re diventa tiranno.

Se la tirannide non è eccessiva, è certamente più utile sopportarla per un certo tempo piuttosto che, reagendo, incorrere in molti pericoli più gravi della stessa tirannide. Infatti può succedere che quelli che si sollevano contro il tiranno siano sconfitti e così il tiranno provocato diventerà più crudele. Ma anche dalla loro vittoria possono derivare molte gravissime discordie nel popolo: la comunità si divide in fazioni, sia al momento dell’insorgenza contro il tiranno, sia, una volta scacciatolo, sul modo di organizzare il governo.

Talvolta succede anche che, avendo il popolo cacciato il tiranno con l’aiuto di qualcuno, questi diventi tiranno a sua volta dopo aver preso il potere; e, temendo di dover subire da qualcun altro ciò che egli stesso ha fatto, opprima i sudditi ancor più pesantemente. Infatti nella tirannide suole avvenire che il tiranno successivo sia più gravoso del precedente, perché non abbandona le gravezze precedenti e lui stesso ne trova di nuove con la perfidia dell’inganno. Ecco perché una volta capitò che, mentre i Siracusani desideravano la morte di Dionigi (il tiranno), una vecchia pregava incessantemente che egli le sopravvivesse sano e salvo; il tiranno venutolo a sapere, le domandò perché facesse così. Ed essa rispose: «Quando ero bambina, siccome avevamo un tiranno crudele, desideravo la sua morte; però dopo che lui fu ucciso ne venne un altro ancora più crudele. Allora mi pareva una gran cosa se fosse finito anche il suo dominio. Ma dopo sei venuto tu, che sei ancora più insopportabile. Così, se tu fossi ucciso, ne verrebbe un altro ancora peggiore».

Se poi l’eccesso della tirannide fosse insopportabile, secondo alcuni toccherebbe al valore degli uomini forti uccidere il tiranno ed esporsi al pericolo della morte per la liberazione del popolo: e di questo c’è un esempio anche nell’antico Testamento. Infatti (come narra Giud., 3, 15 ss.) un certo Aioth uccise Eglon re di Moab che opprimeva con una grande schiavitù il popolo di Dio conficcandogli un pugnale nel fianco. Ma questo non è consono alla dottrina degli Apostoli. Infatti San Pietro ci insegna che dobbiamo essere soggetti con reverenza «non solo ai signori buoni e temperati, ma anche ai perversi» (I Piet. II). Difatti «è un merito sopportare pazientemente ingiustizie per amore di Dio»; perciò, quando molti imperatori romani perseguitavano tirannicamente la fede di Cristo, una grande moltitudine di nobili e di popolo già convertita alla fede, non per aver reagito, ma per aver sopportato pazientemente la morte per Cristo, pur avendo le armi, ora viene lodata, come chiaramente appare nella sacra legione tebea; e bisogna considerare che Aioth più che un principe tirannico del suo popolo, ne uccise un nemico. Perciò anche nel vecchio Testamento si legge che coloro che uccisero Joas re di Giuda furono giustiziati ed i loro figli risparmiati, secondo il precetto della legge, sebbene il re si fosse allontanato dal culto di Dio.

Sarebbe pericoloso per il popolo e per i suoi governanti, se arbitrariamente si potesse attentare alla vita di coloro che governano, sia pure tiranni. Per lo più infatti a pericoli di questo genere si espongono più i cattivi che i buoni. Ora, ai cattivi il governo dei re risulta gravoso non meno di quello dei tiranni perché, secondo la sentenza di Salomone, (Prov., XX, 26) «Un re sapiente disperde gli empi». Perciò un simile arbitrio procurerebbe al popolo più il pericolo di perdere un buon re, che il rimedio della cacciata di un tiranno.

Risulta dunque che contro la crudeltà dei tiranni si deve procedere non secondo l’arbitrio di qualcuno ma per mezzo della pubblica autorità. In primo luogo, se a qual- che comunità spetta di scegliersi il re, secondo il diritto il re creato può essere destituito e il suo potere frenato dalla comunità stessa, se adopera tirannicamente la sua potestà. E non si deve ritenere che questa comunità manchi di fedeltà destituendo il re, anche se prima gli si era sottomessa in perpetuo; poiché egli stesso non comportandosi fedelmente nel governo della comunità, come esige il dovere del re, si è meritato che i sudditi non mantengano il patto stretto con lui. Così i Romani cacciarono Tarquinio il superbo, che avevano accettato come re, per la tirannide sua e dei suoi figli, sostituendolo con una potestà minore, quella consolare.

Così pure Domiziano, che era succeduto a due imperatori molto temperati – suo padre Vespasiano e suo fratello Tito – mentre esercitava la tirannide fu ucciso dal Senato romano, e giustamente e salutarmente fu abrogato con un senatoconsulto tutto quello che con perfidia egli aveva imposto ai Romani.

Così avvenne che San Giovanni Evangelista, discepolo diletto di Dio, che dallo stesso Domiziano era stato mandato in esilio nell’isola di Patmos, per senatoconsulto tornò ad Efeso.

Se poi spetta a qualche superiore il diritto di nominare il re per la comunità, bisogna attendere da lui il rimedio contro la perfidia del tiranno.

Così ad Archelao, che regnava in Giudea al posto del padre Erode imitandone la perversità, lamentandosi di lui i Giudei presso Cesare Augusto, dapprima venne diminuito il potere col togliergli l’appellativo di re e col dividere la metà del regno fra i suoi due fratelli; quindi, poiché nemmeno così veniva distolto dal tiraneggiare, fu mandato in esilio da Tiberio a Lione, città della Gallia. Ma se contro il tiranno non si può avere alcun aiuto umano, bisogna ricorrere a Dio, re di tutti, il quale al momento opportuno soccorre nelle tribolazioni. Infatti è in suo potere volgere alla mansuetudine il cuore crudele del tiranno, secondo la sentenza di Salomone (Prov., XXI, 1): «Il cuore del re è in mano a Dio; lo piegherà dovunque vorrà». Egli volse in mansuetudine la crudeltà del re Assuero che preparava la morte ai Giudei. Egli trasformò talmente il crudele re Nabucodonosor che questi divenne un predicatore della divina potenza. «Ora dunque – dice Nabucodonosor – lodo, magnifico e glorifico il re del cielo, poiché le sue opere sono vere e le sue vie giudizi, e può umiliare coloro che camminano nella superbia». (Daniele, IV, 34).

Dio può togliere di mezzo i tiranni che reputa indegni della conversione, o ridurli alla condizione più bassa, secondo quel detto del Sapiente (Eccl., X, 17); «Distrusse il trono dei condottieri superbi e fece sedere i miti al loro posto». Egli è lo stesso che, vedendo l’afflizione del suo popolo in Egitto e prestando ascolto al suo grido, sommerse nel mare il tiranno Faraone col suo esercito. Egli è quello stesso che trasformò, rendendolo simile a una bestia, il già ricordato Nabucodonosor che era insuperbito, cacciandolo non solo dal regno, ma anche dall’umano consorzio.

Ora, la sua mano non s’è accorciata da non poter liberare il suo popolo dai tiranni. Per bocca di Isaia egli infatti promette al suo popolo di dargli pace dal travaglio, dalla confusione e dalla dura schiavitù sotto la quale prima aveva servito. E per bocca di Ezechiele (XXXIV, 10) dice: «Libererò il mio gregge dalle loro fauci», cioè da quelle dei pastori che pascono se stessi. Ma il popolo, per meritare da Dio questo beneficio, deve cessare dai peccati, poiché è appunto in punizione dei peccati che per divina permissione gli empi prendono il comando, come dice il Signore per bocca di Osea (XIII, 11): «Ti darò nel mio furore un re». E in Giobbe (XXXIV, 30) è detto che «fa regnare un uomo perverso per i peccati del popolo». Dunque, perché cessi la piaga dei tiranni, bisogna rimuovere la colpa.

 

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