De Regimine Principum [9]: La memoria del giusto è benedizione, mentre il nome degli empi marcirà – prima parte

 

De Regimine Principum [9]: La memoria del giusto è benedizione, mentre il nome degli empi marcirà – prima parte

Poiché per i re è stabilito un premio così grande nella beatitudine celeste, se si saranno comportati bene nel governare, essi devono badare a se stessi con accurata diligenza, affinché non diventino tiranni.

Niente infatti deve essere loro più gradito dell’essere portati alla gloria del regno celeste da quello stesso onore regio dal quale sono esaltati in terra. Sbagliano invece i tiranni che per qualche interesse terreno abbandonano la giustizia, perché si privano di un bene così grande, che potrebbero ottenere governando con giustizia. Nessuno poi, a meno che non sia stolto o privo di fede, ignora come sia sciocco perdere beni grandissimi ed eterni per dei beni così meschini e soggetti all’usura del tempo.

Bisogna poi aggiungere che i vantaggi temporali per i quali i tiranni trascurano la giustizia provengono ai re in quantità maggiore col rispetto della giustizia, E questo a cominciare dall’amore di amicizia, poiché fra le cose di questo mondo non c’è niente degno di essere preferito all’amicizia.

È essa infatti che unisce gli uomini virtuosi, e conserva e promuove la virtù. Di essa tutti hanno bisogno per compiere qualsiasi impresa; di essa che nei momenti di prosperità non importuna e nelle avversità non abbandona. È essa che provoca i piaceri più grandi, al punto che qualunque cosa piacevole senza amici diventa noiosa, e qualunque cosa difficile dall’amore è resa facile e quasi insignificante. E non esiste un tiranno tanto crudele che non si diletti dell’amicizia.

Infatti si narra[1] che una volta Dionigi, tiranno di Siracusa, aveva decretato di uccidere uno dei due amici che si chiamavano Damone e Pizia. Quello che doveva essere ucciso chiese una dilazione per andare a casa a riordinare le proprie cose; l’altro si diede in ostaggio al tiranno per garantire il ritorno dell’amico. Avvicinandosi poi il giorno stabilito e poiché quello non tornava, tutti accusavano di stoltezza quello che si era dato in ostaggio. Ma lui ripeteva di non temere nulla dalla costanza dell’amico. E questi nell’ora stessa in cui doveva essere ucciso tornò. Ammirando il loro animo il tiranno condonò il supplizio per la loro fedeltà nell’amicizia; anzi li pregò dì accogliere anche lui come terzo nell’ambito della loro amicizia.

Ma i tiranni, per quanto lo desiderino, non possono conseguire il bene dell’amicizia. Infatti, nel momento in cui, invece di cercare il bene comune, cercano quello personale, la comunione con i sudditi diventa piccola, o inesistente addirittura. Ogni amicizia invece si basa su una qualche comunanza. Noi vediamo che si uniscono in amicizia persone che si avvicinano per origine di natura, o per somiglianza di costumi, o per la comunanza di un qualsiasi rapporto sociale. Perciò, l’amicizia del tiranno col suddito è meschina o addirittura inesistente, mentre i sudditi sono oppressi dall’ingiustizia; e sentendo di non essere amati ma disprezzati, certamente non amano. I tiranni non hanno di che lamentarsi dei sudditi, se da questi non sono amati, poiché non si comportano con loro in modo da rendersi amabili.

I buoni re, invece, siccome si preoccupano del bene comune, in modo che i sudditi si accorgono di riceverne molti vantaggi, sono amati da molti, perché dimostrano di amare i loro sudditi: infatti odiare gli amici e rendere ai benefattori male per bene è proprio di una cattiveria più grande di quella che si riscontra nella massa. Da questo amore deriva che il governo dei buoni re sia stabile, perché per essi i sudditi accettano di esporsi a ogni sorta di pericoli. Un esempio di questo si ha nella storia di Giulio Cesare, del quale Svetonio racconta che amava talmente i propri soldati che, appresa l’uccisione di alcuni di essi, non si tagliò i capelli e la barba finché non li ebbe vendicati; e con questo comportamento rese i soldati molto devoti a lui e valorosissimi, tanto che molti di essi, catturati, essendo stata loro concessa la vita a condizione di combattere contro Cesare, rifiutarono. E Ottaviano Augusto, che usò del potere con molta moderazione, era tanto amato dai sudditi che molti, morendo, ordinavano che le vittime che avevano promesso per sé venissero immolate perché gli dèi lo conservassero in vita.

Non è dunque facile che sia turbato il dominio di un principe che il popolo ama con così grande consenso. Di qui le parole di Salomone (Prov., 29, 14): «II trono del re che giudica i poveri con giustizia sarà stabile in eterno». Il dominio dei tiranni invece non può durare a lungo, dal momento che è odioso alla moltitudine; poiché non si può conservare a lungo ciò che è in contrasto con i desideri di molti. È difficile infatti che qualcuno trascorra tutta la vita senza patire qualche avversità; e nel tempo dell’avversità non può mancare l’occasione di insorgere contro il tiranno: e quando c’è l’occasione, non manca tra molti chi ne approfitta. Il popolo poi accompagna col suo incoraggiamento chi insorge, ed è raro che non raggiunga l’effetto ciò che si tenta col favore del popolo. Dunque è difficile che il governo tirannico duri a lungo.

[Continua…]

 

[1] Damone e Pizia, o più esattamente Damone e Finzia, furono due Pitagorici di Siracusa, protagonisti di un famoso aneddoto, tramandato da Aristosseno, un celebre discepolo di Aristotele, attraverso Giamblico, filosofo siriano allievo di Porfirio, nel De vitPythagorica.

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