Della solitudine ed il prof. Giuseppe Tucci
Utilizziamo in modo onnivoro la parola “solitudine” così ci rimane ormai – o quasi – impraticabile destreggiarsi tra il suo significato e le deformazioni patite. Ciò avviene nella nostra lingua in molteplici casi e non è, quindi, una spocchia da bizantini e da manieristi, frivoli e presuntuosi, quando ci si lagna sull’impoverimento del linguaggio e delle nostre scuole che sfornano più generazioni di belanti e beoti – “oi barbaroi”, che per i greci erano “balbuzienti” tutti coloro che non parlavano la lingua di Omero -. Esiste il rimedio e, poi, ne vale veramente la pena se, fra pochi decenni, rileva una rivista di cui non ho colto il nome passeremo da sessanta milioni a poco più di trenta originari dell’italica specie? Non è questo, però, l’argomentare d’oggi ché di lagne già ne siamo invasi… E’ prendere le mosse dal termine “solitudine” – a memoria della lezione, casualmente ascoltata – ero da poco studente di filosofia – affascinante e profonda del filosofo Johannes Lotz che egli l’intendeva quale modalità principe per raccogliersi all’ascolto e darsi alla comprensione e della natura e dell’uomo e di Dio, da non confondersi – utilizzando il termine “isolamento”, cioè quell’estraneità di cui patiamo nel quotidiano esperire e che ci estranea dal mondo e dall’altro e dalla trascendenza. Premessa…
Accanto alla poltrona sto terminando la lettura di Giuseppe Tucci dal titolo Non sono un intellettuale, raccolta di suoi articoli e suddivisi per argomento con introduttive e brevi note, pubblicata da Il Cerchio nel 2017. Morto nel 1984, tardivo ma rispettoso e significativo omaggio allo studioso – fra i più noti (la cialtroneria della nostra classe politica e “culturale” a parte che gli fece una sorta di ostracismo dopo il ‘45) studiosi del Tibet e dell’Oriente. Fra cui un articolo che s’intitola Solitudine. Appunto. E torno al 2006, quando tramite le Edizioni Settimo Sigillo e con l’amico Rodolfo Sideri uscì Strade d’Europa – libro forse meno fortunato di Inquieto Novecento (ad esempio fu lodato da Giano Accame che fu, al contrario, critico severo verso quest’ultimo), ma che io amo perché la faccio da protagonista…
Trascrivo, pag. 64: “Sfoglio di recente Tibet ignoto di Giuseppe Tucci fra i più illustri conoscitori della cultura indiana e, specificatamente, tibetana. Trovo scritto: “l’uomo … è soprattutto l’immenso tumulto dell’irrazionale da cui salgono improvvise le fantasie e le immaginazioni, dove egli ritrova sé stesso e abbraccia l’infinito …”. E mi rivedo adolescente accompagnare mia zia Ada in pomeridiane passeggiate al Colle Oppio. Qui si univa a noi un anziano professore Giuseppe Tucci appunto che portava a spasso una coppia di aristocratici levrieri afghani. Un giorno volle mostrarci la sua abitazione, all’interno del palazzo Brancaccio, una sorta di museo ove si trovavano in armonico disordine gli straordinari reperti, ricordo di innumerevoli viaggi in Tibet negli anni Trenta. Poco capivo e ancor meno m’interessavo. Gli occhi, per vie oscure e insondabili ne conservarono i tesori in qualche nascondiglio della mente e del cuore. Per tempi avvenire”. E ancora, dunque, ritornano. In questa fine d’estate del 2021. E’ questa una percorrenza possibile di cui si serve la solitudine, di quel essere a parte nel silenzio della notte e in cielo tripudio di stelle, e lanciare un ponte ove due anime si scoprono e dialogano? Solitudine, dunque, a rimedio del vocio sguaiato e inconcludente, di gesti volgari e scomposti, quale isola a porre argine e a edificare una comunità in spirito. Come scrive lo stesso professor Tucci: “… con poca brigata di amici così vicini che abbiano gli stessi miei moti, le stesse cure, simpatie ed ansie eppure così diversi che, discutendo insieme e ciascuno proponendo le proprie idee, il pensiero suo renda più lucido e di sé il meglio agli altri doni”.
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