“di stelle siamo fatti e alle stelle torneremo”
“L’importanza di chiamarsi Ernesto” commedia in tre atti di O. Wilde, porta un nome che “procura vibrazioni” al cuore, nel nostro caso, alla fascinazione per le icone rivoluzionarie latino- americane coronate di barba e col basco en la cabeza. C’era tanto del Che nell’ Ernesto Cardenal monaco-poeta, teologo della liberazione, Ministro del Frente sandinista con cento vocazioni, spentosi a Managua dopo 95 anni di navigazione verso l’isola sognata, apparsa, scomparsa, forse una supernova lassù nell’universo, stella di amanti al telescopio in cerca dell’Amato nel Canto Cosmico. Indossava la sua stola il prete guerrigliero su una tunica bianca da bambino per ricevere l’ostia dell’ultima Comunione, un ribelle alla soglia della casa del Padre, la parabola si chiudeva nella speranza, Signore rispondi tu al telefono come nell’auspicio dell’oracion por Marilyn Monroe.
La morte scioglie le lingue nel brodo dell’apologia partigiana su quel presbitero sospeso a divinis dal rigido anticomunismo di Karol Wojtyla, dimentichi che il papa di Wadowice il cancro del socialismo reale l’aveva toccato con mano nel costato della sua Polonia.
“Que viva la revolución!” fu il motto bolivariano urlato dal Ministro della Cultura nella Cattedrale di Managua levando il pugno chiuso in risposta alla pubblica reprimenda del Pontefice all’aeroporto della capitale nicaraguense quel 4 marzo 1983. “Prima devi riconciliarti con la Chiesa” era stato l’ammonimento papale al gesuita guerrigliero inginocchiatosi per il negato baciamano, quell’indice severo verso il volto ieratico del poeta rivoluzionario fece il tour del mondo e oggi, a lume spento, costituisce giudizio di condanna del Papa venuto di lontano.
Dai Somoza ad Ortega il cerchio poi si è chiuso in un eterno ritorno della dittatura con tutti i suoi tragici peccati, dal culto della personalità al familismo, dalla corruzione alla repressione sanguinaria dell’opposizione (tragiche le manifestazioni del dissenso del 2018) con un refrain costante: la povertà del popolo di contro alla grassa ricchezza dei maiali della Fattoria di Orwell.
“Bienvenido a Nicaragua Libre gracias a Dios y a la Revolución” recitava lo striscione di accoglienza al Papa all’aeroporto di Managua, le consorelle libertà e rivoluzione sono finite in fondo al sacco assieme al diritto del popolo alla poesia, Ernesto Cardenal l’aveva capito nel ’94, Giovanni Paolo II qualche anno prima.
Ma la rivoluzione è amore forte come la morte, palingenesi di contro al brullo inverno, primavera erotica degli ideali nel coito vivificatore d’una società nuova voluta con passione, mistica abnegazione e perché no fumo di barricate. La rivoluzione, come la poesia, cabe todo, avvolge tutto, una volta nel sangue ci resta irrorando la memoria d’un caleidoscopio di immagini mai private dell’anima di sensazioni concrete saldate nelle sequenze del pensiero-azione.
Allora la parola non è trasmissione di sentimenti, onanismo dell’io ululante, ma evocazione di virtù nascoste nel mito che la poesia rivela per educare, formare il popolo, risvegliarlo dalla decadenza dei costumi, dal servaggio ignobile al potere violento ladro della dignità umana.
Questa funzione civile della poësis e del poeta cuciva tra loro Ezra Pound ed Ernesto Cardenal suo grande ammiratore (tra l’altro tradusse in spagnolo i Cantos) proiettandoli alla fonte egea dell’epos lirico sorgente fresca di umanesimo ricca di valori primari, irrinunciabili, quelli cantati, da Omero, Esiodo, Confucio, Dante.
Il poeta “impegnato” Mario Benedetti (italo-uruguagio) aveva colto la grande influenza poundiana nell’architettura poetica di Cardenal, la libertà dalle anguste celle della rima, contaminazione di culture diverse, sconfinamento della poesia nella prosa, arredamento studiato di antico e contemporaneo, accostamento, quasi onirico, di immagini distanti, metafore educative, lavoro duro d’ osmosi tra ideali socio-politici con l’essenza dell’essere. Diverso era invece il loro linguaggio, aulico per Pound pop per l’Ernesto ma identico il culto religioso della parola spogliata d’ogni orpello, essa si fa lama tagliente fuori dal fodero, difesa e attacco contro il potere dell’usura, dell’imperialismo finanziario, assassini della poesia magica d’ una società agreste di comunione solidale tra gli uomini, tra questi e madre natura.
Il cantore di Granada si convinse a salire sul monte Carmelo con la Bibbia e Marx, il vate dell’Idaho con Confucio e Mussolini, ma una volta caduti in disgrazia per le rivoluzioni strozzate, dalla cima di quel monte entrambi si sono accordati col silenzio mistico del cosmo, argonauti indomiti alla ricerca dell’eterno significato dell’esserci.
Ognuno dei due ha dato e pagato col coraggio della propria vita il riscatto per essere polvere di stelle.
Quanto è attuale quel Salmo I di Ernesto:
“Fortunato l’uomo che non segue le direttive del Partito
e non partecipa alle sue manifestazioni
e non si siede allo stesso tavolo con i gangsters
o con i suoi Generali nel Consiglio di Guerra.
Fortunato l’uomo che non spia il suo fratello
o denuncia il suo compagno di scuola.
Fortunato l’uomo che non legge gli annunci pubblicitari
e non ascolta le loro radio
e non crede nei loro slogan.
Sarà come un albero piantato accanto a una fonte”.
La morte ti sia lieve Ernesto nella tua Solentiname.