Diversi anni fa mi trovavo nella sede dell’Unione dei Combattenti della RSI, a Piazza Vittorio, che doveva essere abbandonata e traslocare in qualcosa di più piccolo ed economico. Ormai i reduci non ricevevano più fondi – il vecchio MSI era defunto e senza rimpianto – e le loro file andavano estinguendosi nell’impietosa anagrafe che non fa sconti né deroghe. In una stanza avevano ammucchiato carte e fotografie e sacchi dell’immondizia ove riversarle – in fondo ‘tutto il resto é scorie’, scrive Pound, rispetto a ciò che si ama e permane ed anche le emozioni i sentimenti appartenendo al linguaggio del corpo sono destinati alle discariche della storia privata e collettiva. Rovisto e mi prendo diverse fotografie – due le ho incorniciate alla parete, sono del Fascismo al tempo delle squadre e antecedenti la Marcia su Roma – e, in una busta, avvolto nel cellophane un cartoncino con un frammento di stoffa incollato e con la scritta ‘Pezzi di camicia nera presi al momento dell’esumazione … il 20 aprile 1953’ e la firma Maria Monticelli (credo sia stata ausiliaria, originaria di Napoli, ed è stata lei che s’è adoperata per dare sepoltura ai fucilati di Sant’Angelo in Formis di cui facevo riferimento nel precedente mio articolo).
Una reliquia. E mi torna a mente una delle sequenze di Combat-film ove si vede uscire dal portone della prigione un giovane in camicia nera, le maniche arrotolate, lo sguardo fiero il passo sicuro, salire su la jeep, scortato da militari armati, quasi gioioso e lesto come chi si reca ad una festa, la sua – ne è consapevole – è il palo dei condannati a morte. E forse sono suoi i frammenti di quella camicia che conservo, misto di rispetto ed invidia. E forse credo anche di conoscerne il nome. Mario Tapoli Timperi, romano, studente di medicina, di anni 19. Ed è ritratto in una fotografia con gli altri suoi camerati – fra cui Franco Aschieri – e il sacerdote, che gli ha portato il conforto religioso. E sono lì, quasi rilassati, sorridenti, a parlare di donne o della partita di calcio o dello scherzo che stanno architettando, mentre, nei pressi, nella cava di pozzolana sono stati eretti i pali composto il plotone d’esecuzione scelti gli esecutori per il servizio sporco. Pochi minuti prima, sono stati interpellati dal colonnello americano a capo del tribunale che li ha condannati e, al contempo vorrebbe salvarli, utilizzando una professoressa d’inglese perché dica loro di offrirgli un appiglio per sottrarli alla morte, magari basterebbe che confessassero d’essere stati obbligati, di essere stati minacciati – gravi sanzioni – se non avessero attraversato le linee alleate. Nessuno ci ha obbligato. Risposero in comune accordo -fate il vostro dovere, solo una richiesta d’essere fucilati senza la benda sugli occhi per poter vedere il cielo azzurro d’Italia che abbiamo tanto amato…
E Franco Aschieri compone la lettera alla mamma: ‘con l’animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che è stata così breve per me e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze e sensazioni… Ieri sera, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che già avevo conosciuto da bambino: sentito cioè il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a diventare immenso, come volesse liberarsi dai vincoli della carne per riconquistare la libertà …’ E la conclude con un grido lancinante e fiero, nella piena consapevolezza del senso tragico e universale del combattimento in atto: ‘W il Fascismo! w l’Europa!’ Essi ci insegnano che c’è stata una giovinezza eroica e amara che sapeva ben vivere per ben morire. Essi ci insegnano che questa guerra è l’eterna del sangue contro l’oro e non è terminata nel maggio del ’45. Essi ci insegnano come – nonostante l’incuria del tempo i vuoti pessimismi l’occhio stanco il passo incerto – la mente ed il cuore rimangono, devono preservare in loro gli ideali e i sogni, i soli che al servizio dell’Idea ci rendono giovani e liberi…