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[In foto: Shelley McNamara, Yvonne Farrell e Paolo Baratta]

Venezia, languida passatista al chiaro di luna, il 26 maggio scorso ha inaugurato la 16. Mostra Internazionale di Architettura distribuita soprattutto tra i Giardini e l’Arsenale e curata da Yvonne Farrell & Shelley McNamara (?).

Deus ex machina quel Paolo Baratta, lauree in Ingegneria ed Economia, pluriministro dei governi Banca d’Italia ( Ciampi e Dini ), di quello lacrime e sangue di topo gigio Amato. Y. Farrell e S. McNamara sono due architette ( omaggio boldriniano al genere non ai loro seni) irlandesi, cofondatrici nel 1978 della Grafton Architects, uno studio d’Architettura con sede a  Dublino, la monotona città di J. Joyce.

In Italia la coppia ha progettato la nuova sede della prestigiosa Università Bocconi di Milano, scatole dai grandi occhi, di più invece hanno realizzato in patria nell’architettura pubblica tra scuole ed edifici istituzionali sognando la nuova biblioteca di Dublino come un California dreamin’. Redatto il manifesto della mostra nel ‘17, riempiendolo di miele sulle nuove frontiere dell’arte di Dedalo, col polline succoso della sfida i professionisti sui temi di un’architettura dem, devota del territorio, interattiva uomo-natura, spazio d’ azioni umane in  divenire, flessibile nel tempo; beh eccole arrivare le api, selezionate in n. di 71.

Ci si aspettava di confrontarsi con manufatti d’avanguardia, chiavi sperimentali di nuovi paradisi, ci attendavano proposte sensazionali capaci di proiettarci oltre le attuali barriere del vivere l’architettura negli scatoloni siano essi incivili residenze o grandi magazzini. Uno  Zarathustra col compasso avrebbe annunciato la morte di quell’architettura con tutta l’enfasi che el pueblo richiedeva, raccogliendo l’urlo munchiano dalle sterminate periferie delle città d‘olio,  capaci di allagarsi a macchia divorando territorio, risorse e ghettizzando l’umanità del mutuo secondo portafoglio, razza, lavoro.

E’ innegabile che madama architettura, per sua natura, sia medico primario del benessere  dell’uomo, anzi un alchimista che cura i suoi pazienti malati producendo sempre nuove formule, soluzioni, per rivestire d’ oro esistenze di piombo. La qualità delle erbe  selezionate con cura certosina per realizzare infusi benefici in ogni condizione, è un’antica sfida di questa nobile arte, era la prima per i Greci.  Un’architettura mamma generosa era richiesta ai partecipanti della Mostra  con l’obiettivo di promuovere, come diceva Baratta, “un desiderio di architettura” puntando all’offerta della qualità dello/nello spazio sia esso pubblico o privato.

Free è il pensiero, quello che immagina il binomio aperto-chiuso analizzando  quel trattino, diaframma sottile tra l’uomo e le sue funzioni in continuità dialettica perenne. Insomma il tema era volare alto, concentrarsi da stilita in meditazione tra il cielo senza muri e la terra crosta di favi umani.  L’attesa era carica di promesse, magari stravaganti, utopiche come quando si scrivono, con nuovi codici linguistici, delle regole condivise da trasferire poi nei fatti quotidiani.

Il De Architectura della Biennale lagunare a guida celtica tradisce quest’ aspettativa, tante belle opinioni disseminate nei Padiglioni (ottimo quello della Cina sul ritorno alla ruralità), magari anche stimolanti, shock, ma nessuna sintesi operativa, la regia s’è fermata a leggere la sceneggiatura, mentre i cameramen giravano il film senza una guida, simile a Prova d’orchestra di Fellini. Certo i temi da affrontare c’erano, eccome, ma in ogni contenitore (Terra protagonista, Progettare il vuoto, architetture luoghi d’azione) ogni professionista ha esposto la sua interpretazione legata alle proprie radici etnico-culturali o all’io demiurgico.

E’ mancata la colla che tenesse assieme idee e riflessioni, ciascun per se anche nella babele dei linguaggi. Le curatrici hanno staccato la spoletta, lanciata la granata, fatto l’inchino, ma la bomba non è esplosa, molti lustrini e vecchi merletti di architetti sconosciuti o archistar già viste; but the show must go on fino al 25 novembre. Uno spuntino ci pare stimolante, gustoso: educare all’architettura già dai banchi della scuola, ma col vento che spira su docere et discere è utopia.

Pensierino finale: ancorati al provincialismo esterofilo ci resta il dubbio amaro che curatori italiani avrebbero fatto  molto  meglio, ma questa è una mosca populista da scacciare al più presto.

 

 

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