Globalizzazione e dittatura del brand

 

Globalizzazione e dittatura del brand

É noto ormai ai più che l’espressione “globalizzazione” si riferisca, tra le altre cose, alla trasformazione subìta dal sistema capitalista che in molti oggi chiamano “turbocapitalismo”. Altrettanto lo è il fatto che tale metamorfosi si sia consumata rapidamente negli ultimi trent’anni. Molto meno noto, invece, è l’humus entro il quale tale mutazione si è verificata.

Essenzialmente l’epicentro del cambiamento è rinvenibile nel Secondo dopoguerra – oltre che nella morte dello Stato-Nazione –, nella tendenza di lungo termine, ridottasi poi nel medio e nel breve, verso livelli sempre più alti di capitalizzazione delle imprese industriali. É così, infatti, che le società per azioni e le grandi corporation sono divenute le protagoniste indiscusse dell’economia industriale operando, non più entro i confini nazionali delle rispettive sedi legali, bensì su scala mondiale producendo e distribuendo i loro prodotti e/o i servizi in diversi Paesi e molti mercati, tra cui quello virtuale del web.

Il fatto stesso che sia stato possibile concedere la personalità giuridica a organizzazioni private formate a fini di lucro e da più individui associati, ha rappresentato «un’operazione dubbia dal punto di vista dell’ideologia liberale e in effetti ha precedenti pre-liberali e anti-liberali». Lo faceva notare, già alla fine degli anni Sessanta, Theodore J. Lowi in The End of Liberalism (New York, Norton, 1969).

La sofisticazione del linguaggio attuata nel periodo considerato dai mass media ha facilitato quest’operazione. Non a caso il termine “liberale” è stato subdolamente sostituito con quello più accattivante “liberal” e le corporations sono state chiamate “pubbliche”, anche quando il loro carattere non era altro che “privato”, con scopi altrettanto tali, ben altro che filantropici.

Per perseguire la propria mission, infatti, una volta affrancatisi dalle risorse locali, i colossi dell’economia globalizzata si sono organizzati e imposti come imprese sempre meno nazionali prima, sempre meno multinazionali poi fino a divenire, di fatto, transnazionali. Grahame Thompson in The Political Economy of the New Right (Londra, Pinter, 1992) mise in guardia proprio su questo aspetto: per tale tipologia di impresa, la base nazionale finisce, per lo più, per divenire irrilevante poiché, una volta configuratasi come tale, l’azienda transnazionale «si serve come base operativa del globo intero invece che di un Paese particolare […] considera il proprio mercato da un punto di vista globale, non sentendosi legata a questo o a quel centro operativo». Di conseguenza, i suoi processi di programmazione, produzione e distribuzione ne hanno affermato l’autonomia a livello mondiale, senza lasciarsi più regolare da alcuna autorità nazionale che rimane così impotente, svuotata del suo potere e del suo ruolo.

Torna in mente il titolo di un libro collettaneo scritto da Francesco Galgano, Sabino Cassese, Giulio Tremonti e Tiziano Treu: Nazioni senza ricchezza. Ricchezze senza Nazione (Bologna, Il Mulino, 1993): un gioco di parole sul titolo del più famoso lavoro di Adam Smith, certo. Ma che metteva ben in risalto la natura senza precedenti della crisi già in corso negli anni Novanta e dalla quale non siamo più usciti: colossali flussi di risorse finanziarie da allora state raccolte, investite, spostate, occultate con un clik.

Sono più di trent’anni che la ricchezza passa sopra il territorio dei singoli Stati e la lex fisci – battere moneta, riscuotere tasse nazionali – subisce una progressiva e inesorabile erosione che oggi rivela il fondo in cui siamo precipitati: la moneta è sovranazionale e diventerà sempre più elettronica e virtuale; la ricchezza finanziaria sfugge al monopolio fiscale dei singoli Stati che si rifanno sui patrimoni individuali dei singoli cittadini; la sovranità nazionale è limitata de facto alla lex pauperum, con forza calante, poiché le solidarietà internazionali presuppongono Stati singolarmente forti e in buona salute economica: quando tali premesse vengono meno irrompono gli egoismi su cui è collassata la tanto sbandierata solidarietà europea; laddove le improvvisate unioni – come appunto l’Ue – “aiutano” gli Stati membri lo fanno al costo di tassi di interesse tutt’altro che solidali come il MES; il rapporto aureo è divenuto un mito sconosciuto ai più come quello della caverna di Platone in cui siamo stati relegati.

Molte sono ormai le corporation transnazionali di grandi dimensioni che operano da decenni sottraendosi a qualunque effettivo controllo in merito ai loro investimenti e alle loro strategie industriali. Siamo circondati dai loro brand, dei loro spot. Guardatevi intorno, ne troverete alcune intorno a voi. Una, ad esempio, è quella che fabbrica il pc, il tablet, lo smartphone con cui state leggendo questo articolo. Scorrete le etichette dei vostri vestiti, le insegne dei negozi, le pubblicità dei manifesti mentre aspettate il treno o la metropolitana. Sono intorno a voi. Ma solo in grafica, in una serie di loghi.

Non sono solo marche. Sono colossi aziendali, i Moloch del Terzo millennio che si dotano di regole interne proprie che li configurano per i propri dipendenti e per i propri clienti come dei “quasi-Stati” in grado di rispondere solo ed esclusivamente al proprio sistema di regole “interno”, una sorta di sistema costituzionale e giuridico a sé. Qualche esempio? Provate a far valere i vostri diritti – per come riconosciuti dalle normative del Paese in cui vivete – di lavoratore in una sede italiana di Amazon o di Glovo o di Just Eat. Oppure opponetevi alla censura di un vostro profilo su un qualsiasi social network che ne ha imposto e/o disposto la chiusura. Quali dei due sistemi costituzionali pensate che prevarrà? Quello del Paese in cui vivete o quello posto in essere de facto dalla multinazionale che ha preso una determinata decisione impattante sul vostro menage quotidiano?  

Il luogo è stato sostituito dal logo, le regole dai cookies, la parsimonia dal consumo. E la libertà dai “termini e condizioni”. É la globalizzazione, baby. E sta benissimo. Quello con la mascherina, che guarda con sospetto le persone intorno e non i brand, a quanto pare, sei tu.

 

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