Globalizzazione: il deserto della cultura
Il deserto culturale è elemento propedeutico essenziale alla propaganda mondialista, non a caso generata da un mondo di ascendenze religiose veterotestamentarie, come dimostra il mito biblico del popolo eletto rivenduto nella formula laica degli “umani” contro “bestie”. I primi, ovviamente, detentori dell’unica formula positiva di umana convivenza: il liberismo. Rifiutare i modelli proposti dal pensiero unico liberista e mondialista significa essere relegati nel campo degli incivili da educare con ogni mezzo, anche di polizia; in attesa di sdoganare i campi di rieducazione di comunistica memoria o direttamente i manicomi per dissidenti. Gli uffici orwelliani di riscrittura della storia hanno come nemico assoluto sia il pensiero critico sia, soprattutto, la verità e non tollera riflessioni che non siano “di pancia” sullo schema binario bene-male assoluto.
Tuttavia, per non mostrare – non subito almeno – il proprio volto totalitario, il pensiero unico globalista ha bisogno, come nelle migliori tradizioni dei regimi autoritari, di una opposizione del re. Tali sono quei gruppi che si dicono contemporaneamente di sinistra, favorevoli all’etnopluralismo, allo svuotamento delle sovranità statali, al rimescolamento universale e, senza avvertire la contraddizione, si definiscono anche no-global. In altre parole, rifiutano il fenomeno dal punto di vista nominalistico e lo accettano e lo difendono nelle sue varie sfaccettature fenomenologiche.
Per avvertire la contraddizione, infatti, bisognerebbe aver sviluppato un pensiero critico che proviene da uno studio della storia quanto meno non superficiale; studio che la Scuola, in tutti i suoi livelli, non solo non fornisce più, ma fa di tutto per ostacolare, proponendo manuali semplificati, versioni uguali da secoli o riadattate in nome del politicamente corretto. Ad essere colpiti sono tutti quegli elementi che funzionano o meglio funzionerebbero da antidoti alla mondializzazione: dall’identità – vera e propria parola bandita dalla neolingua orwelliana – al primato della politica; dai riferimenti culturali precisi e quindi “forti” a un’economia reale e non finanziaria. In un’economia finanziaria il lavoro non è più centrale e tutte le tutele per i lavoratori vanno smantellate come orpelli di un passato che non può tornare.
Lo stesso essere umano come persona non è più centrale, cosicché esponenti del pensiero radicale che hanno trovato recentemente naturale alleanza con i centri mondialisti di Soros, possono affermare senza vergogna e per di più sotto elezioni che gli immigrati sono necessari per raccogliere pomodori a pochi spiccioli. Occorre una forte mobilitazione prima culturale e poi politica di tutte le energie identitarie superstiti, in tutti gli ambiti in cui si annidano. Altrimenti, demolito il concetto stesso di Stato-nazione, soppressa la cultura popolare sostituita dalle demenzialità televisive, disperse le tradizioni solidaristiche comunitarie, l’assalto capitalistico-finanziario avrà vinta la partita decisiva.