Di Lorenzo Centini
Il secondo cortocircuito che ha ridato vita all’escatologismo è stata il cambio tecnologico. A differenza di quanto fecero l’energia atomica e ancor prima l’elettricità e la chimica diffusa, Internet e l’editing genetico hanno promesso un cambio antropologico dell’uomo. Non si tratta più di semplici strumenti aggiunti all’arsenale tecnico umano, ma sviluppi che minacciano a vario titolo di cambiare la sostanza stessa dell’essere umano.
Tutte le implicazioni possibili di queste tecnologie e le svolte che prenderanno in futuro non sono prevedibili neppure ai più sagaci ed acuti analisti; che tuttavia l’essere umano stesso nella sua forma conosciuta sia in pericolo è evidente a tutti, o perlomeno così appare.
La sfiducia nel futuro insieme agli sviluppi tecnologici, esattamente la situazione in cui ci troviamo, conduce ad una profonda e insanabile incapacità di figurarsi uno sviluppo ordinato di queste tecnologie. La risposta collettiva è ipotizzare futuri distopici, di per sé antipolitici. Una distopia – come l’Utopia – hanno la stessa funzione del modello nel pensiero scientifico. Servono per impostare delle situazioni e per organizzare una griglia che, grazie a dei postulati, ci permetta di veder funzionare una particolare parte del sistema che vogliamo osservare.
Se vogliamo osservare come reagisce un particolare elemento in una reazione dobbiamo necessariamente ipotizzare che altri elementi che influirebbero sul sistema (temperatura, presenza di altri elementi, pressione, ecc) non cambino: la nostra attenzione è tutta rivolta al comportamento dell’elemento. Se anche altri elementi cambiassero, o cambiassero in modo non previsto, non potremmo ragionevolmente essere sicuri che la reazione dell’elemento osservato sia dovuta all’azione che gli abbiamo impresso. Paghiamo un prezzo, per così dire, epistemologico: diamo per scontato che esista qualcosa che non esiste realmente – o che esiste a determinate condizioni – per acquisire conoscenze.
Gli scenari utopici o distopici (ma in quest’ultimi con più evidenza) funzionano in modo identico. Essi si focalizzano su alcuni aspetti – la sudditanza politica, alcune condizioni materiali, ecc – e scientemente ignorano altre condizioni. Per esempio: in nessun film distopico il dissenso interno alle elites è preso seriamente. Non esiste quasi, e se esiste è, di solito, il prodromo alla rottura dell’ordine distopico. Questo è del tutto normale: se l’autore si concentrasse sugli scontri interni alle elites non potrebbe mettere in luce il rapporto tra masse ed elite s stesse. La bravura dell’autore è farci dimenticare che nella vita reale, fuori dall’esperimento, esistono detti contrasti e che hanno molte influenze sul rapporto tra masse ed elites.
Una volta che la distopia diviene moneta corrente, un riferimento sotteso o addirittura una atmosfera essa raccoglie attorno a se’ ogni linguaggio politico. E’ difficile fuggire da un romanzo distopico com’è difficile fuggire da una narrazione distopica.
Qual’è l’endgame di ogni distopia? La rottura. Non solo perchè, di solito, la distopia è associata al Male e pertanto essa deve perire, ma perchè non esiste una riforma possibile della distopia; e non esiste alcuna riforma possibile di una distopia perchè la distopia ha perso ogni connotato politico. Nessun cambiamento avviene dentro la distopia perchè nessuna forza è dinamica dentro la distopia. Ognuno recita una parte e assolve una funzione precisa. Il cambiamento è impossibile e quindi la fine è la distruzione della trama. La distopia condivide già tutto ciò che associamo al tempo escatologico, e non a caso in molte tradizioni escatologiche prima della Fine si instaurerà un regno distopico, di solito costruito dalle forze del Male, che è male e fermo in ogni suo aspetto.
Come è forse chiaro il cul-de-sac tecnologico ha assunto sfumature distopiche e la distopia è, per sua natura, una fase dell’escatologia. L’escatologismo non ha dovuto quindi far altro che portare alle normali conseguenze un filone di sensazioni già presenti nel mondo contemporaneo.