Ho scritto sovente come la vita è finita quando diviene ricordo. Da vecchio mi rendo conto che vi sono momenti, sempre più frequenti, in cui la solitudine si riempie di immagini volti parole sentimenti gesti compiuti pensieri espressi. Non sono soltanto compagni di viaggio a essermi a fianco, essi diventano la mia stessa carne e il sangue le ossa, partecipano del linguaggio del corpo anche quando, in apparenza, sembrano svanire, nascondersi in qualche remoto angolo della mente e del cuore. ‘Ogni sera – mi ha confidato – ritrovo il loro volto, ascolto la loro voce. E so di non essere solo…’. I tanti che lo hanno accompagnato lungo gli argini del Po in divisa nel deserto libico e nei mesi crudeli della ‘guerra civile’ in quel rifugiarsi a Roma mentre infuria la ferocia dei vincitori l’emarginazione gli insulti la miseria il faticoso rialzarsi il lento ricominciare e sempre, lo sottolinea, preservando integra la dignità (‘l’Onore!’ come preferiscono definirla, lui e i reduci dell’ultima battaglia. Quei ‘vinti di Salò’, che è titolo anche di uno dei suoi libri migliori).
Alla parete una fotografia, dono di Carlo Panzarasa, in cui lo ritrovo in divisa da marò della XMAS insieme ad altri corrispondenti di guerra. Il 4 settembre 2012 si è spento, alle ore 12,30, nel pensionato ove s’era ritirato a vivere, l’amico Ugo Franzolin, che fu giornalista e scrittore, corrispondente dopo l’8 di settembre del ’43 e arruolatosi nella Decima del Comandante J. Valerio Borghese. Ormai sono quasi dieci anni. E mi sembra ieri, nel passeggiare nei pressi di Fontana di Trevi o al tavolino di un bar con la tazza di tè e qualche biscottino d’accompagno. Garbato nel tono, fermo però nei propositi e nelle proposizioni, con l’accento veneto conservatosi nonostante gli oltre cinquant’anni di ‘esilio’ nella Capitale. Memoria attenta al particolare alla sfumatura al dettaglio che è poi il saper raccontare – un tirocinio lento e faticoso, privo di studi appropriati, ma tenace nella lettura. ‘Sono un uomo fortunato – e, dietro le lenti, gli brillano gli occhi ironico e pago – sono diventato quello che era il mio sogno, essere uno scrittore…’. Penso a I giorni di El Alamein, che trovò giudizio lusinghiero in Indro Montanelli, poco propenso sferzante alla lode. Ugo era nato in un paesino del Padovano, il padre falegname e buon costruttore di carretti consentiva ai figli di avere da mangiare a pranzo e a cena, magari con una tazza di latte e fette di pane, in un mondo dominato dalla miseria dei braccianti del lavoro stagionale – mi raccontava d’una vicina di casa, umile, a chiedere alla madre un gavettino di polenta per sfamare una famiglia troppo numerosa. Il fratello più grande, Alfonso, che era partito in camicia nera alla conquista dell’Impero e che era rimasto, in una fossa, nel cimitero di Addis Abeba. A ventidue anni. Il Fascismo che, quasi a compensarne la perdita, offre un posto di lavoro alla sorella e una residenza a Viadana, nel mantovano, ove trascorrerà gli anni dell’adolescenza fino alla vigilia della guerra. Poi arruolato in Marina, il fronte libico, l’8 settembre lo coglie a Roma, il ritorno a casa, la decisione di arruolarsi nella Decima del Comandante J. Valerio Borghese. Corrispondente di guerra… E il sollecitarmi a scrivere di narrativa, capirne l’impegno, forse ben superiore alla mia arroganza da professore, ingabbiato nel saggio nelle riflessioni filosofiche. Uno dei tanti modi, come sosteneva Céline, di vincere la paura della morte.
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