Quasi ogni giorno e quasi alla medesima ora – intorno a mezzogiorno – mi telefono con Franco G.. Già del btg. Lupo della XMAS, oggi ha novantasei anni, ma conserva buona memoria e chiara l’esposizione. A Milano, nel ’44, mentre rientrava di notte, fu aggredito dai gappisti che volevano sottrargli la pistola e gli perforarono con un colpo a bruciapelo il polmone. Poi, dopo una lunga degenza in ospedale e presso un sanatorio sulle Dolomiti, il fronte del Senio e la ritirata e l’oltrepassare il Po e l’Adige fino alla resa con l’onore delle armi ai neozelandesi alle porte di Padova. La prigionia prima a Taranto e per mesi in Algeria. Tornato a Roma, spirito indomito, decide di arruolarsi nella Legione Straniera e viene spedito a dare la caccia nel deserto e sui monti dell’Atlante alle bande in lotta per l’indipendenza e nella città di Algeri per poi, in nave, verso l’Indocina e, dopo la sconfitta a Dien-bien-phu, di nuovo in Algeria – tutte vicende da lui raccontate, sotto la forma narrativa, in due libri che conservo con dedica. Credo di averne scritto in Stile ribelle.
(Mi vengono a mente i romanzi di Jean Lartéguy Né onore né gloria e Morte senza paga, che lessi – quest’ultimo – in un particolare stato d’animo e fisico, chiuso in casa e in attesa di eventi decisivi per la mia vita).
Quando lo chiamo – è quasi un rito – io imposto un argomento e lascio che racconti. Divaga ma riannoda sempre il filo del discorso e, se stanco chiude la conversazione, la riprende il giorno dopo. Una esistenza avventurosa, descritta e mai con vanità o la presunzione e sempre con la capacità di immedesimarti, di farti partecipe. Oggi mi ha preceduto – una guerra, ci sarà presto una guerra, non con modalità conosciute nel ’45, ma c’è una grande paura, la paura che attanaglia e deturpa il vivere. (Quella che io chiamo la pandemia dello spirito). La più crudele, interiore, fatta di viscere il battere del cuore il seccarsi delle labbra l’occhio cupo. Mi racconta di come ne fu avvinto una notte di sentinella in una stradicciola di campagna, il Piemonte carico di ferocia e di agguati, ogni fruscio un pericolo, doversi fare forza, imporsi non lasciarsi andare. E la vastità del deserto, da poco nella Legione, un puro nulla e una mano che ti serra naso e bocca e il pugnale alla gola che ti soffoca con il tuo stesso sangue. (E Nietzsche si leva ammonendo come cresca il deserto e guai a colui che lo lascia in sé penetrare. Il nichilismo). E, nella folta vegetazione d’Indocina, quando d’improvviso il silenzio si fa vivo e capisci che un animale da preda va cercando la sua vittima o un Viet-mihn abbeverarsi di sangue europeo…
Gli racconto un episodio narratomi da un amico di mio padre che era stato ufficiale di marina. Non so in quale scontro navale – forse la guerra contro la Turchia per la conquista della Libia o durante la Grande Guerra – sulla tolda della nave ammiraglia un cadetto si muoveva diritto e tronfio e a gran voce reiterata ‘Io, non ho paura! Io non ho paura!’ e l’ammiraglio Cagni, asciutto: ‘Io ce l’ho, ma me la tengo!’. Questo il discrimine – non senza la paura, ma portarla in sé incatenata.