Queste giornate grigie piovose uggiose producono pensieri sfilacciati e grevi, simili a rami nudi e resi pesanti dall’umidità. In camicia nera il distintivo la fotografia e copia de Il Corsaro Nero di Emilio Salgari. Per quell’immagine sua ultima, a conclusione del libro, e possente della scialuppa che si allontana tra le onde nella notte. A bordo la donna amata, Honorata, e perduta, per rispettare il giuramento fatto, oltre ogni sentimento tentazione rinnegamento (‘Per l’Onore d’Italia’, appresi e ne possedevo già il crisma). ‘Poi scomparve nel tenebroso orizzonte, che dense nubi, nere come l’inchiostro, avvolgevano (…) Carmaux si era avvicinato a Van Stiller e, indicatogli il ponte di comando, gli disse con voce triste: – Guarda lassù: il Corsaro Nero piange!’. E, credo, io piansi da adolescente su quella pagina come piansi, goccioloni, al cinema Zanarini a vedere le scene finali del Cirano di Bergerac, che d’allora divenne uno dei miei amici più fidati e cari (e quando ascolto la canzone scritta da Guccini, verboso e a tratti odioso, mi viene il groppo in gola).
Scrivo di me, come sempre del resto (Nietzsche afferma di aver messo in ognuna delle sue opere qualcosa di sé ed è un buon alibi per raccontarmi), ma scrivo della copia de Il Corsaro Nero, acquistata su una bancarella di Porta Portese e portatami in regalo, a prenderci un caffè sotto casa, tutto fiero e orgoglioso da Federico. E se n’è andato, pochi giorni dopo avermi telefonato che stava in una via di Trento a curiosare tra i libri accatastati alla rinfusa e, essendoci copie di romanzi salgariani, ha pensato che potessi aver piacere rileggerli e mi informava. Brusco nei toni quasi si vergognasse d’essere sempre lesto del suo cuore generoso. E brusco era ogni volta che mi lagnavo – e lo facevo sovente – accompagnandomi a fare la spesa con il mio passo strascicato il bastone ortopedico e bilenco. Se n’è andato ed ora riposa in un paesino montano ché la montagna era la sua ‘patria’ interiore come il latino ed il greco, di cui si discettava, e di quella Grecia, dove tornava sempre volentieri e che, per la prima volta, avevamo scoperto nell’aprile del ’68.
E, siccome condividemmo quel patrimonio di idee e di lotte a cui, pur nello scorrere del tempo e di scelte, siamo rimasti fedeli, mi torna a mente Trieste, città che amo, e di un episodio raccontatomi. Trascrivo da E venne Valle Giulia: ‘A Trieste il gruppo, da poco costituitosi, è in fibrillazione. Dissensi anche aspri. I fratelli Claudio e Gianni S. (diverranno negli anni grandi amici di Mario a Trieste un punto di riferimento affettivo, quella porta – d’Istria, Fiume, di Dalmazia, – di Ragusa, Zara e Pola – carne e sangue dell’Italia! -) sprizzano scintille. Chiedono sia Roma a portare ordine. Catapultato, Federico L. si trova davanti un coro stonato e un agitarsi scomposto dove accusa e contro-accusa si rimbalzano e di cui non sempre ne coglie il senso a causa d’espressioni dialettali. Che fare o a chi dare ragione? – Silenzio! – comanda, cercando di darsi un tono massimamente imperioso – tutti in piedi e cantiamo – e per primo – Sui monti, nel ciel, sulle strade e sul mar-‘. Braccia conserte sulla schiena gambe divaricate il volto impassibile tutti levano in alto la voce e ogni stonatura si disperde’.
C’è una eredità di sangue; c’è una eredità di spirito. E, in questa, ben si colloca ‘il Corsaro Nero piange’… E Federico, così accorto di sé stesso e, al contempo, così prossimo con la mente ed il cuore al cuore e alla mente d’ogni camerata.
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