Ho un debito da pagare, uno dei tanti – simili a fiaccole che arsero lungo il percorso di una esistenza inquieta ed errabonda – e che mi educarono non soltanto ad amare il Fascismo “immenso e rosso” ma trarne uno Stile e ad esso adeguarmi. Sono i volti di uomini e donne che conobbi da quando, a sedici anni, rigettai le luminarie le sirene, illusione ed inganno d’un caleidoscopio variegato, essere al passo dei tempi. Oggi a uno di loro dedico queste brevi note, tardive e sincere – Cesare Mazza, poeta, nato a Reggio Emilia l’8 novembre 1919, ufficiale nei reparti d’assalto della RSI, invalido di guerra. Nella mente la Scuola di Mistica Fascista e del suo ideatore, Nicolò Giani; nel cuore l’incontro, mi sembra autunno del ’43, con Robert Brasillach, poeta.
“Così ho sempre voluto vivere. – Così voglio morire – come un povero – in cammino, – con pane e dinamite nella bisaccia. – E così voglio parlare – ai volti che mi accompagnano – nella serenità – della comune sventura” (Bassa padana, 1944).
In via dell’Olmata, nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore dove sono nato e trascorso gran parte della mia esistenza, c’era la tipografia Wage il cui proprietario, Walter Gentili appunto, accoglieva tutte le realtà dell’Area e ne pubblicava le opere e i manifesti e volantini, sovente tanto distratte e al verde da lasciare il pagamento a data da destinarsi. Fu Walter a condurmi da Cesare in viale Trastevere, nella sede di una minuscola sigla sindacale (Cesare era ispettore del Ministero per gli Istituti d’Arte). Qui Mazza teneva un ciclo di conferenze sui poeti e la morte. Guido Gozzano, Cesare Pavese, morto suicida in una camera d’albergo a Torino inizio anni ‘50, l’ungherese Petofi caduto contro i russi durante la rivoluzione del ‘48 e il cui corpo mai ritrovato, il futurista russo Majakovskij anche egli suicida e, ovviamente, Robert Brasillach. La voce carica di molteplici sonorità lo sguardo penetrante. Divenimmo amici, per anni sodali al terzo piano della tipografia o a Monteflavio dove in una casa isolata, nello stanzone camino e tavolo con panche, giovani e meno trascorrevamo in ascolto e a rinnovare il canto della Legione Perduta, a pestare i sentieri innevati o, nella notte, protetti dal sacco a pelo, l’ululato dei lupi in caccia presso gli ovili.
Atemporalità e Universalità del Fascismo, ci insegnasti. E tant’altro ancora. E come Robert (quando ne parlavi gli occhi si rendevano velati di commozione) ci donasti la fierezza e la speranza (Lettera a un soldato della classe ’40) … “Andremo dove il sole nasce, legionari, – andremo con le insegne ed i gladi – sulle rupi di fuoco, – a cantare la nostra leggenda. – Traverseremo terre desolate – fra grigie pietre e strida di corvi. – Andremo con la nostra bandiera – d’oro e di morte – a destare dalle bare del silenzio – le aquile. – Lassù il sole nascerà domani”.