Il fallimento globale della globalizzazione
Nel giugno 1996, in occasione dell’International Labour Conference, Jacques Chirac pronunciò un discorso che oggi pochi ricordano: The Economy Must Be Made to Serve People. Espresse tutti i suoi dubbi sulla globalizzazione, preoccupato che non stesse affatto migliorando «la vita di coloro che hanno maggiormente bisogno dei benefici che essa aveva promesso».
Non solo i timori del leader conservatore francese erano fondati, ma è successo di peggio: della globalizzazione si sono giovati proprio coloro che non avevano bisogno di migliorare la propria condizione. Oggi, “grazie” alla pandemia da Covid-19 e alle sue conseguenze, quasi tutti hanno capito che qualcosa è andato terribilmente storto. Era ora.
La globalizzazione non ha ridotto la povertà mondiale, l’ha aumentata e re-distribuita tramite le ondate migratorie controllate delle ONG e caldeggiate dal buonismo radical chic. Essa non ha nemmeno assicurato la stabilità del capitalismo finanziario – nel frattempo fattosi “turbocapitalismo” neoliberista – visto che le crisi dell’Asia e dell’America Latina sono poi arrivate, con i loro effetti negativi, anche in Europa e in Nord America.
Non va meglio se consideriamo la globalizzazione come fattore propulsivo di passaggio all’economia di mercato per quelle “in transizione”: l’Occidente era persuaso che il nuovo sistema economico avrebbe portato una prosperità senza precedenti. Senza precedenti, invece, è stata la povertà in cui tutti siamo sprofondati. Sotto molti aspetti, per gran parte della popolazione, l’economia di mercato si è dimostrata addirittura peggiore di quanto avessero previsto i leader comunisti: il contrasto fra la transizione della Russia, manovrata dalle istituzioni economiche internazionali, e quella della Cina, gestita invece internamente, lo conferma. Nel 1990 il PIL cinese era il 60% di quello russo; alla fine del decennio le cifre si sono invertite. La povertà in Russia è dilagata, in Cina è scesa a livelli senza precedenti.
La globalizzazione che avrebbe dovuto creare un “nuovo mondo” fatto di solidarietà, cooperazione e sviluppo si è invece risolta in una dittatura internazionale dei mercati. Gli egoismi finanziari delle élite finanziarie hanno fagocitato la nobile mission della politica, quella di intervenire per sanare gli squilibri attraverso interventi correttivi che sono stati, ovviamente, demonizzati dai “meccanismi di stabilità”. Deregulation da una parte (quella finanziaria) e vincoli rigidi ai bilanci nazionali hanno reso le banche le “braccia armate” di questo sistema. Quelle occidentali, infatti, hanno tratto vantaggio dall’attenuazione dei controlli sui mercati finanziari in America Latina e in Asia, ma queste regioni hanno subito un contraccolpo quando improvvisamente si è interrotto l’afflusso di capitali vaganti provenienti da operazioni speculative a cui certi Paesi erano abituati. Il brusco deflusso di denaro ha provocato il tracollo di alcune valute e l’indebolimento dei sistemi bancari che ha finito per interessare anche i Paesi non abituati a questi shock.
Tutto ciò – e molto altro – è successo col benestare delle tre principali istituzioni che hanno governato la globalizzazione: il FMI, la Banca mondiale e il WTO. Nessuno dei loro leader – pur essendo esse “istituzioni pubbliche” – è stato mai eletto dai cittadini di nessun Paese. Nessuno alla loro guida, insomma, ha mai dovuto rispondere all’opinione pubblica internazionale o nazionale dei Paesi di provenienza. Ciò, invece di garantire a tali organismi una certa “apertura”, ha spinto nella direzione diametralmente opposta, rendendo la loro azione sempre meno “trasparente”.
Questa troika avrebbe dovuto sovrintendere i processi dell’ultimo trentennio similmente a quanto fecero i governi nazionali guidando quelli di nazionalizzazione. Ma non lo hanno fatto, anzi. Hanno realizzato un sistema di governance globale nel quale poche istituzioni e pochi protagonisti – la finanza, il commercio e i ministeri del Commercio, strettamente legati a interessi finanziari e commerciali ben precisi – hanno dominato incontrastati la scena, mentre molti di coloro che ne subiscono le decisioni non hanno mai avuto voce in capitolo.
L’unico ambito in cui la globalizzazione non ha fallito, dunque, è stato quello di aggirare ogni forma di rappresentatività – linfa vitale ogni democrazia che possa definirsi come tale – soprattutto se letta nella concezione elaborata dal fondatore del diritto pubblico italiano, Vittorio Emanuele Orlando. Secondo il giurista, infatti, ogni elezione avrebbe dovuto essere «una designazione di capacità: un gruppo ristretto di elettori indicava quelli che riteneva capaci di gestire problemi collettivi. Chi votava sceglieva non solo kratos, ma anche aretè ed episteme, non solo forza, ma anche virtù e competenza».
La globalizzazione, de facto, ha reciso ognuna di queste radici. E non è stato certo un caso.