A un filo sottile color verde s’aggrappa la spes afgana di non sprofondare nell’Ade d’una teocrazia fanatica tornata al potere, subendo la metamorfosi da genti fiere, indomite, a ombre vaganti nella storia, è quello stesso filo che fu nodo scorsoio alla gola della 40esima Armata sovietica nel ’89, del governo comunista della RDA nel ’92, trappola per i talebani del mullah Omar fino al 2001. Nacque in quegli anni l’eco, tra le valli dei “cinque leoni”, del mito mujaheddin, del loro Comandante, Aḥmad Shāh Masʿūd, per tutti il “leone del Panjshir”, uomo colto (un baccalaureato), aspirante architetto, poeta ma anche fine stratega della guerriglia con cui la resistenza sferrò colpi knock down agli invasori “sciuvarì” e ai loro lacchè, diventando poi lama puntata alla gola del movimento talebano e di Al-Qaida.
Le tante valli, le montagne dell’Hindu Kush del Panjshir, la quasi assenza di strade (una soltanto la Saricha Road) furono un incubo per i pentastellati blindati red quanto per gli jihadisti dell’integralismo islamico finanziato dal vicino Pakistan.
La lotta armata era nel sangue del tagiko Aḥmad Shāh, gli scorreva nelle vene ancor prima dell’invasione sovietica del ’79, aveva ben studiato, da rifugiato, le tecniche di guerriglia, il mordi e fuggi, strappa carni al nemico poi torni all’ agguato, conoscendo palmo a palmo quel territorio a settentrione di Kabul dove vive l’etnia kagika. Proprio gli studi ne avevano costruito personalità e obiettivi, coniugando Islam e modernità, si doveva combattere per realizzare una Patria comune, indipendente, trasfondendo nella fede religiosa la linfa del progresso imprescindibile da libertà e democrazia.
Nella guerra civile contro il governo degli studenti coranici, insediatosi nel ’95, il Gen. Massoud, già ministro della Difesa, costretto dagli eventi a lasciare Kabul, aveva messo su l’Alleanza del Nord proprio sui crinali di quel nido d’aquila che incorniciano il Panjshir, opponendosi in armi alla deriva radicale dei talebani che imponevano, col terrore, la Shari’a. La guerriglia controllava vaste porzioni del territorio centro settentrionale afgano, in particolare proprio quell’enclave del Panjshir, ma carestia, isolamento, l’afflusso di migliaia di profughi stavano minando la resistenza anti-talebana. Così Aḥmad Shāh volò a Strasburgo, sede dell’inutile Parlamento europeo, per invocare dalla vecchia cagna sdentata aiuti a sostegno della lotta contro il regime integralista, ma l’Europa, fu sordomuta dinanzi a quel grido di battaglia, troppo subalterna alla politica statunitense, priva di un esercito, vuota di strategie comuni che non siano il mercato.
Il 9 settembre di vent’anni orsono, il leader veniva assassinato vittima di un attentato suicida a Khvājeh Bahāʾod-Dīn, due finti giornalisti di nazionalità tunisina fecero esplodere la carica di dinamite celata nella telecamera, Osama Bin Laden aveva così estratto la spina nel cuore del fondamentalismo islamico, il filo verde pareva spezzato, fu l’ouverture del 11 settembre.
Il 15 agosto gli “studenti di Dio”, per la seconda volta, hanno riafferrato il potere, dopo vent’anni, schiaffeggiando la tigre di carta della missione ISAF prima, Resolute Support dopo, la fragile democrazia afgana è implosa come le Twin Towers del World Trade Center, decine di migliaia di morti soprattutto civili, risultato: il governo dei talebani è nuovamente in sella. L’Occidente è scappato come un cane la coda fra le gambe, gridando aiuto!aiuto! dall’alto della sua attuale pochezza di virtù e valori impossibilitata a battere quelli d’acciaio che hanno coagulato i coranici e tengono serrate le mani al filo del Nfr, il fronte della resistenza anti-talebana guidata dal figlio del “leone del Panshir”.
La new governance radicale ha profanato la tomba di Massoud nella ricorrenza ventennale del suo assassinio, un’infamia copiata qui da noi al Campo della memoria, proclamano d’ aver spazzato via l’opposizione armata nel Panjshir, ora tutto il Paese è sotto l’egida del mullah Mohammad Hassan Akhund con un Ministro degli interni, Serajuddin Haqqani ricercato terrorista. Almeno questo battono le Agenzie di stampa dando voce ai tronfi comunicati del governo, ma una speranza, quel filo verde c’è ancora, appeso sul baratro d’una regione leggendaria, è sottile ma ancora non si spezza stando alle parole di Ahmed Wali Massoud, fratello del mitico Comandante: “No, è falso… Il Panjshir non è caduto. I talebani possono sognarlo e il mondo magari crederci, ma è falso”. L’impressione netta è che l’Occidente voglia credere al falso pur di lavarsene le mani, leccarsi le ferite, pensare ad altro, cercando cunicoli diplomatici per arraffar vantaggi nazionali sulla gestione delle risorse afgane come sulla ricostruzione, perché qui l’unico valore ha il color verde del denaro non certo della speranza. Calerà la coltre del silenzio vile sul genocidio in atto, ma siamo certi che per monti e valli del Panjshir i ribelli continueranno a combattere, d’altronde sono gli abitanti della terra dei leoni.
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