Il mio paese mi fa male

 

Il mio paese mi fa male

Una piccola foto in bianco e avana con la cornice dorata, poggiata sulla scrivania di mio nonno, era l’unica immagine del fratello Enrico, in posa da tenente del Regio Esercito Italiano, morto all’ingiallir delle foglie, nel ’17, durante la ritirata dal fronte nord orientale dopo Caporetto. Il corpo finì sotto terra assieme ai suoi soldati, niente spoglie restituite cui dare un omaggio, di lui solo due spalline d’argento con le frange riposte in un cassetto come l’amor segreto, sottaciuto per una donna sposata, in piccolo fu come Boccioni per Vittoria Colonna.

 Un fermacarte di bronzo portava a rilievo l’inizio del Bollettino della Vittoria firmato A. Diaz: “La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. . Il 4 novembre era festa nazionale, la tromba suonava il silenzio, una corona d’ alloro era poggiata sulla stele del monumento ai caduti, la messa per i piccoli eroi, devozione popolare del ricordo, solennità del sangue ceduto a un ideale, ogni famiglia aveva donato il proprio, c’erano ancora gli ex combattenti in divisa e mostrine, vecchi sì ma saldi nell’amore per quella loro Italia. 

 Il mese che verrà saranno cento anni dall’implosione del vecchio Impero austro-ungarico, sconfitto proprio sul fronte italiano, fu la vittoria di patrioti coraggiosi, testardi, disposti a tutto pur di costruire una casa comune dopo un secolo di Risorgimento saldando, armi in pugno, il cerchio con il sangue di 600.000 figli della Patria (così chiamati un tempo).

 «Se la patria non è più che lo Stato, la patria è persa (e lo Stato, se è persa la patria, è in preda al Male)» scriveva Guido Ceronetti in Albergo Italia, profeta per l’angoscia di un linguaggio insipido, minimale, svuotato di significati da dove traspare la vergogna del termine Patria o Madrepatria, ancor più nobile, sostituita dal nulla di Paese (c’era un giornale con questo nome con accanto Sera).

Gli alchimisti della parola fanno iniezioni di veleno sottile nei significati perché i porci non hanno affatto le ali, non volano alti, se ne stanno muso a terra divorando tutto a loro uso e consumo, anche il linguaggio, grugniscono al solo sentir parlare di identità nazionale, coniano “sovranismo”, cancro dei populismi che issano bandiere e rifiutano il pastone unico del pensiero globale.

 Eppure qualcosina sembrerebbe muoversi nella fanghiglia del politicamente neutro, allineato, nella brodaglia scipita servita dagli chef europeisti alcolizzati, piccole eresie, s’intende, su immigrazione e debito pubblico, prove di liberazione dallo stato di servaggio tanto caro all’Europa continentale, quella che difende la dote della moglie con la prostituzione degli altri. Staremo a vedere se le minacce di scomunica avranno un seguito per quel 2,4 % di deficit del Pil 2019, il guanto è gettato, l’Italia dei Fieramosca riscende in campo accettando la sfida franco-teutonica. Però l’arco costituzionale ingrifa le penne, va all’attacco, dai crisantemi bianchi a quelli rossi, si schiera con Bruxelles non con l’Italia. I burattini offrono corpo e voce, manifestazioni, bassa manovalanza, in jeans o con tailleur firmato ed r moscia, si prestano a fare le teste d’ariete, per non dir di peggio, nelle mani delle vestali dei regolamenti comunitari.

Siamo tornati a quel 1914, clima di fuoco tra interventisti e quelli geneticamente anti, gli internazionalisti del libero mercato, uomo consuma uomo altro che riscatto del proletariato. Cento anni buttati, molto simili al masso di Sisifo faticosamente spinto in alto per poi rotolare giù dal monte, perché una coscienza patria non c’è in quest’ Italia di mascalzoni e marionette; ciao zio Enrico, riposa tra i muti eroi, il 4 novembre vedremo grigie salme rendere omaggio a voi caduti per la nostra Patria non per un qualsiasi Paese.

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