Il mondo come Teofania. Per una ecologia tradizionale
A riflettere sull’importanza che ai nostri giorni hanno assunto la salvaguardia dell’ambiente e le tematiche ecologiche in generale, sembra di assistere alla riscoperta di una visione sacra della natura. Dopo secoli di materialismo sfrenato − durante i quali la terra e le sue risorse sono state concepite unicamente come un tesoro da saccheggiare − nella narrazione dominante la natura appare ora come qualcosa di inviolabile: alterarne l’equilibrio è divenuto una sorta di sacrilegio, uno dei peggiori crimini che si possano compiere.
Eppure tutto ciò, nonostante le apparenze, è quanto di più lontano ci sia dalla visione tradizionale della natura. In tutte le tradizioni spirituali, infatti, il mondo è concepito come una teofania. Nel simbolismo orfico Dioniso, guardandosi allo specchio, anziché sé stesso vede riflesso il mondo: Dio dunque, assoluta Unità, nell’atto della creazione si disperde e si fa molteplice, affinché la realtà si manifesti. Nella tradizione vedica troviamo il sacrificio di Prajāpati, il Dio che “si divide per riempire questi mondi”, “Uno in sé, ma molteplice nei Suoi figli (Śatapatha Brāhmana, X, 5, 2, 16); “indiviso negli esseri divisi” (Bhagavad-gītā, XVIII, 20), il Principio divino è quello Spirito filiforme (sūtrātman) sul quale l’intera manifestazione è infilata, simile ad una serie di perle (Bhagavad-gītā, VII, 7).
Anche nelle religioni abramitiche, spesso accusate a torto di antropocentrismo e di scarsa sensibilità nei confronti del mondo naturale, ritroviamo questa visione sacra. In Genesi è Adamo stesso a dare il nome a tutti gli esseri viventi (II, 19-20), i quali in virtù di ciò vengono investiti di una particolare dignità. In San Paolo leggiamo invece che tutta la creazione “geme e soffre le doglie del parto”, e attende di essere “liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Lettera ai Romani, 8, 19-21). Anche nel Corano è ribadita con forza la sacralità del cosmo; i fenomeni della natura sono i segni (ayat) sui quali Dio costantemente invita il credente a riflettere (II, 164; VI, 59; VI, 99; 45, 3-5). I cieli, le montagne, gli animali e le piante, sono manifestazioni della presenza di Dio, e il movimento del sole scandisce i tempi delle preghiere quotidiane del musulmano, oltre che l’inizio e la fine del digiuno durante il mese di Ramadan; oltre il Corano scritto esiste un Corano della Creazione (al-Qur’ān al-takwīnī ), e si può dire che il creato stesso partecipa della Rivelazione divina. Quanto alla tradizione greco-romana, crediamo sia addirittura superfluo ricordare quale importanza avesse la natura e i suoi elementi nel simbolismo dei miti e negli atti rituali. E tornando nuovamente alla tradizione ebraica, notiamo che l’uomo e la natura sono a tal punto interconnessi che la caduta della coppia umana primordiale ha conseguenze sull’intera creazione: quel suolo dal quale Dio faceva germogliare “ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare”, viene maledetto a causa del peccato di Adamo (Genesi, III, 17), e l’uomo decaduto, dopo essere stato scacciato dal Paradiso, solo con dolore e fatica trarrà dalla terra il cibo per il suo sostentamento. Alla degenerazione dell’uomo corrisponde quindi la degenerazione dell’ambiente terrestre e di conseguenza, come afferma Guénon, “le reazioni generali dello stesso ambiente cosmico effettivamente cambiano a seconda dell’atteggiamento che l’uomo assume nei suoi confronti”1. L’uomo infatti agisce sull’ambiente che lo circonda assai più in senso psichico che fisico, e tutte le modificazioni artificiali che produce in esso sono il risultato di questa azione sotti
Ora, che cosa rimane di tutto ciò nell’ambientalismo contemporaneo? Nel culto di Gaia, della “madre natura” vista come una sorta di divinità neopagana, ritroviamo in fondo la parodia della visione sacra del cosmo comune a tutte le tradizioni. Una natura che non partecipa più del destino dell’uomo, ma che è da esso minacciata e dal quale deve essere difesa, tanto da auspicare l’estinzione del genere umano (come propugnato ad esempio dal movimento VHEMT, Voluntary Human Hextinction Movement). Naturalmente nessuno può negare i gravi squilibri e le devastazioni, purtroppo spesso irreversibili, che l’odierna società dei consumi sta provocando nell’ambiente terrestre, tanto da causare ogni anno la scomparsa di migliaia di specie viventi e la distruzione di interi ecosistemi. Ma quello che sfugge agli ambientalisti, chiusi nel loro ostinato materialismo, è che tali squilibri non sono che il simbolo e la manifestazione esteriore di uno squilibrio interno all’anima umana.
Un’umanità che ha rinnegato Dio, riducendo la realtà al solo aspetto corporeo e nella quale tutto deve essere sottoposto alla logica del profitto e dello scambio commerciale, non può a sua volta che profanare l’ambiente in cui vive, un ambiente nel quale non riesce più a vedere lo specchio sul quale il Creatore riflette i Suoi segni. La desertificazione, che interessa sempre di più vaste zone del pianeta, non è che il simbolo di questo deserto interiore. Come afferma la Maitri–upaniṣad (VI, 34), “si diviene simili a ciò che si pensa”: l’anima diventa ciò che contempla, e un’umanità che ha ridotto la vita alle sue funzioni fisiologiche, per la quale non esiste alcuna realtà al di là di quella percepita dai sensi, non può che deturpare l’ambiente intorno a sé: all’impoverimento dell’animo umano corrisponde un medesimo impoverimento della natura, che diverrà tanto più grossolana quanto più l’uomo vedrà in essa una semplice materia inerte, da depredare indiscriminatamente. È per questo che tutte le tradizioni, le quali parlano della degenerazione dell’umanità alla fine dei tempi, ci ricordano che tale degenerazione si rifletterà nella natura stessa: terremoti, carestie, piogge acide, innalzamento delle temperature, saranno solo alcune delle catastrofi che funesteranno gli ultimi tempi, e tali catastrofi non saranno che il segno e il riflesso della degenerazione spirituale, morale e fisica dell’uomo. Pertanto un ambientalismo materialista, o nel migliore dei casi imbevuto di un vago misticismo di derivazione new age, non potrà in nessun modo suscitare nell’uomo contemporaneo un rapporto sano ed equilibrato nei confronti della natura.
Soltanto a partire da una rettificazione del cuore, una rettificazione che ristabilisca il contatto con il Principio, sarà possibile vedere nuovamente nel mondo una teofania e riaffermare la sacralità della natura. Quando la nostra anima sarà purificata dai veleni che secoli di materialismo hanno depositato nel suo fondo, allora anche l’inquinamento esteriore sparirà: e ci saranno allora, come dice l’Apocalisse, “nuovi cieli e una nuova terra”, a simboleggiare la restaurazione dello stato edenico e il ristabilirsi della connessione con Dio. Soltanto allora la natura sarà redenta, e tornerà ad essere quel Velo che nasconde, e al contempo lascia trasparire, lo splendore della Verità. Per chi vede ovunque il Suo Volto, anche i “cieli narrano la gloria di Dio”.
1 R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Milano 1982, p. 116.