Il peccato originale dell’Illuminismo

 

Il peccato originale dell’Illuminismo

L’illuminismo come fenomeno storico si contraddistingue per un assunto fondamentale: il lume della ragione si trova fuori di noi, in uno spazio terzo tra me e il mio interlocutore, e il compito del dibattito è soprattutto quello di far emergere questa Ragione, la quale non è “dibattibile”, cioè non è frutto di mediazione, ma può solo essere riconosciuta.

Questo assunto si trasformò poi nella posizione politica dell’illuminismo. La Ragione in questo caso era lapalissiana: stava nelle fogne, nella alfabetizzazione, nel catasto, nella ragionevole gestione delle risorse e nello sfrondare quanto più possibile orpelli rituali, psicologici e sacrali – “ragionevole gestione” che qualche decennio dopo alleandosi col positivismo e con l’economicismo avrebbe condotto al mix aziendalistico che in parte viviamo anche oggi.

Se la “Ragione” è un lume esterno a noi che esiste a prescindere dalla nostra condivisione, il dibattito è un momento quasi inutile come generatore di contrasti. Il dibattito illuministico infatti è soprattutto una trasfigurazione della catechesi, che va da chi ne sa (cioè chi è illuminato dalla ragione) a chi non ne sa. Non a caso la metafora della luce parla da sola: la luce è un fatto, sta solo a noi coprirci perchè non ci illumini o lasciarci inondare.

Per questo motivo il dibattito in età illuministica fu sì praticato e rivitalizzato, ma non divenne mai una forma di condivisione delle conoscenze usuale. Su questa base l’illuminismo carezzò e praticò per decenni l’alleanza coi poteri autocratici imperiali, giacchè non era importante ove questa verità e luce fiorisse ma che essa acquisisse capacità di penetrazione. La forza della Ragione si trovava nel ragionamento analogico, nel metodo tecnico-scientifico, nel dubbio continuo, non nel dibattito costante.

Noi continuiamo a pensare al dibattito, implicitamente, in questi termini. Noi siamo più agonistici degli illuministi del XVIII secolo, non foss’altro perchè i social network hanno popolarizzato la discussione. Ma in noi, nella maggior parte di noi continua ad esistere l’idea che il dibattito sia una forma di trasmissione di conoscenze, che la verità si trovi fuori di noi (nella scienza, nei numeri, nelle formule, ecc) e che si tratti implicitamente di trovarla. O, nella maggior parte dei casi, di “educare” l’altro a riconoscerla da se’.

Concepire il dibattito in questa maniera, però, non è indolore. Presupporre l’esistenza di una verità terza frutto di fenomeni inarrestabili porta alla conclusione che differenze di vedute non siano originate da fattori ineliminabili (luogo da cui si osserva, formazione, predisposizione psicologica, ecc) ma che siano frutto di una mancanza. “Se solo tutti fossimo educati alla scienza” pensa l’illuminista “non potremmo che pensarla tutti allo stesso modo” – cioè come sembra all’illuminista che le cose stiano in modo perpetuo. “E se questo non accade” continua “è solo perchè molti rimangono nelle tenebre dell’ignoranza”.

Così, partendo da questi assunti, si arriva alla reciproca incomprensione. La pandemia ha tracciato la linea. I complottisti pensano che se solo le persone sapessero tutto il marcio, se solo non si rifiutassero di vedere, se solo potessero ascoltarci, allora sì che cambierebbero idea e scoprirebbero l’imbroglio. Gli anti-complottisti pensano che chi non è perfettamente in sintonia con una certa visione del fenomeno non possa che essere un buzzurro ignorante, e mettono in relazione fervida classifiche PISA e sostegno alle posizioni anti-vacciniste. Sotto c’è sempre, ad intensità diverse, la nozione che l’altro la penserebbe come me se solo fosse stato educato – leggi: dove non fosse rimasto un subumano.

Contro questa modalità terribile di dibattito e di retropensiero occorre recuperare le intuizioni di Weber che nel saggio “Avalutatività” riteneva le opinioni originate in parte da uno strato formale, ma in parte originatesi da un nucleo “estetico”, “psicologico”, “irrazionale”. L’anti-complottista conserva dentro di se’ l’inesauribile fiducia nelle autorità e nel metodo scientifico non solo per calcolo, ma anche per un affetto profondo. Il dubbio coltivato dagli altri ha in parte origini reali ma in parte origina nella diffidenza profonda che ha sfumature estetiche, pre-politiche.

Per Weber il dibattito non deve partire dalla mancanza dell’altro, dalla sua deficienza, dalla sua stupidità. Deve partire dai sostrati razionali ma arrivare a queste idee irriducibili perchè a-razionali. Le quali per definizione non possono essere commisurate ma solo comprese, nel senso di viste. Da ciò parte una parte costruttiva del dibattito per Weber, che vi consiglio di approfondire nel libro citato.

I percorsi mentali sono tanti, complessi, e le regole del gioco non sono esplicite. Sta a noi sapere le regole del gioco che abbiamo deciso di giocare.

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