Il pensiero moderno è impazzito perché nega l’oggetto
Il pensiero ha almeno una cosa in comune con l’organismo biologico: il fatto di poter essere in salute o malato. È in salute quando resta saldamente ancorato al reale (che non coincide con la realtà fisica e visibile), è malato quando si disancora da esso e va per conto suo: a quel punto impazzisce. C’è un momento preciso, nella storia della filosofia occidentale, in cui si compie questa deviazione, questo disancoraggio dal reale e questo fluttuare del pensiero nei regni folli della soggettività pura: il cogito cartesiano. Da quando la filosofia occidentale ha preso Cartesio quale maestro di logica, e il principio cartesiano del cogito ergo sum quale chiave di lettura fondamentale per comprendere il reale, si è messo sulla strada della pazzia e ha incominciato a non capire più nulla. Tutto o quasi tutto quel che è venuto dopo non è altro che una variazione sul tema, vale a dire una variazione sulla pazzia cartesiana. Kant, per esempio, con l’io penso, è un discepolo diretto di Cartesio e come lui perde di vista la cosa più importante, l’ancoraggio al reale. Non ha più importanza la cosa in sé, vale a dire il reale quale è effettivamente, ma quel che conta è la percezione del reale, vale a dire il soggetto che percepisce. Percepisce che cosa? Non si sa: Kant non si degna di chiarire questo trascurabile dettaglio. Dà per scontato che la cosa in sé, il Noumeno, è irraggiungibile e inesplicabile, e ciò gli basta; si fa un merito di “lavorare”, ossia di pensare (il pensiero diviene principio di realtà: Hegel proseguirà su questa strada) su quel che rimane, ossia il fenomeno. Ma il fenomeno non è il reale e nemmeno gli si avvicina; il fenomeno è quella piccola e spesso ingannevole porzione del reale che il soggetto riesce a cogliere facendo di se stesso il perno e il centro dell’universo. Fare filosofia solamente col fenomeno è rinunciare a fare filosofia, e confondere la vera filosofia, che è ricerca della verità, con l’esternazione di opinioni soggettive, che è tutta un’altra cosa. La cosiddetta filosofia moderna è opinione, doxa, per non dire chiacchiera e quasi sempre noiosa, cioè sbadiglio (come osservava Schopenhauer parlando dell’hegelismo). Se si assume il soggetto come principio di realtà, si fa come il Barone di Münchhausen che pretende di tirarsi fuori dalla palude, cavallo compreso, afferrandosi ai propri capelli e facendo forza… sul nulla. Su cosa poggia il pensiero moderno, una volta tolto l’oggetto o, il che è lo stesso, una volta tolta la priorità del reale rispetto a qualunque altra cosa? Sul nulla. Il pensiero moderno poggia sul nulla ed è pensiero del nulla. Tutta la gigantesca cattedrale speculativa di Hegel, e in genere dell’idealismo, è la cattedrale del nulla, fatta di nulla. Al tempo stesso è la codificazione rigorosa (rigorosa e perfino pignola, perché c’è del metodo e non poca pedanteria in tutto ciò) della pazzia: perché pone come presupposto l’idea (folle) che il pensiero crea l’essere, mentre anche un bambino capisce che questo è un capovolgimento totale della realtà, perché nel mondo reale è l’essere che crea il pensiero e non viceversa.
I pensatori moderni sono disancorati dal reale: fantasticano, vaneggiano, delirano; e le loro fantasticherie, i loro vaneggiamento e i loro deliri dettano legge, vengono insegnati dalle cattedre universitarie, sono presi a modello, custoditi religiosamente e tramandati come perle di saggezza, a beneficio delle nuove generazioni. Non c’è da stupirsi che il mondo vada così male, nonostante gli sbandierati trionfi della scienza e della tecnica, figlie, si dice, del pensiero moderno; e si dovrebbe aggiungere: figlie impazzite, che ci stanno conducendo verso l’abisso, perché non vi è saggezza in esse, e ciò come diretta conseguenza del fatto che non tengono conto del reale, ma solo di una “verità” astratta e soggettiva, esistente nella testa di qualche individuo, ma del tutto estranea alla vita reale della stragrande maggioranza della gente. Ed ecco il totale, disastroso scollamento fra l’intellighenzia e il popolo (bue); ecco l’arroganza, la prepotenza, la violenza vera e propria che gli intellettuali, andati al potere, esercitano sulla popolazione (con tanto di trattamento sanitario obbligatorio, leggi psicofarmaci e camicia di forza, per quanti non sono del tutto persuasi e disposti a rimettersi alla decisioni di guide ricolme di una così eccelsa sapienza). Essi hanno capito, gli altri no; essi sanno, gli altri no; dunque essi devono insegnare e governare, governare ed insegnare (vedi i tour di politici e intellettuali progressisti per le scuole italiane, rigorosamente senza contraddittorio, per rieducare i piccoli alla vera consapevolezza sessuale): vale a dire che si prefiggono lo scopo di rifare e’ cervelli, come amabilmente diceva uno dei campioni della rivoluzione moderna, Galilei, ovvero, detto in altre parole, manipolare la mente delle persone e ridurle a passive e obbedienti rotelle del grande ingranaggio da loro concepito, costruito e tenuto costantemente in funzione. Ne hanno, di tempo, da spendere in questa nobile crociata. I comuni mortali devono lavorare e affaticarsi per guadagnarsi la giornata e mantenere le proprie famiglie, ma loro in genere non sono vincolati a tali umilissime necessità: proiettati nel nulla delle loro fantasie, scambiano i loro vaneggiamenti per cose non solo reali, ma assolutamente necessarie, e si sentono investiti dall’alto (o dal basso?) della cruciale responsabilità di farne partecipi e diligenti collaboratori le persone qualunque, ovviamente dopo averne svezzate le rozze menti e l’ancor più rozza sensibilità al fine di farne dei bravi cittadini del Mondo Nuovo. Per il quale essi si ritengono designati dalle stelle a svolgere le funzioni dirigenti. Che potrebbe fare l’umanità, senza di loro? Chi si prenderebbe cura di rifare le menti e i cuori, di rieducare le incivili abitudini classiste, sessiste, razziste e fasciste? Come potrebbe il mondo del terzo millennio affrontare la sfida della globalizzazione, se non ci fossero loro al timone, pieni di zelo e di buona volontà, illuminati da una scienza superiore e guidati da un istinto infallibile? Sanno d’altra parte di essere minoranza nella società, sanno di essere in pochi, anche se occupano tutte le posizioni di potere, dalla scuola alla politica e dall’informazione alla sanità, e da ciò deriva il loro tipico atteggiamento ambivalente verso le masse: a parole dicono di amarle e di averne a cuore il vero interesse, dall’altra ne diffidano, per non dire che le detestano e le disprezzano. Dicono di amare l’odore di pecora e magari si fanno fotografare con un agnello sulle spalle, per simulare l’atteggiamento del buon pastore (come ha fatto il lepido Bergoglio) ma la verità è che quell’odore proprio non lo sopportano, e infatti quando si passa dalla sfera delle loro sbruffonate e delle loro vanterie alla nuda e cruda realtà dei fatti, ad esempio a una situazione di (vera o supposta) pandemia e di (vera o supposta) emergenza sanitaria, ecco che spariscono dalla circolazione, si dileguano, si chiudono nelle loro stanze e nei loro sacri palazzi e nessuno li vede più per settimane e mesi, ci si domanda perfino se siano vivi o morti e poi, quando riappaiono, la loro voglia di assorbire l’odore di pecora è scemata parecchio, e qualcuno si domanda perfino se per caso siano ancora loro o se non si tratti dei loro sosia o dei loro ologrammi.
Se viene a cadere l’oggetto del conoscere, il pensiero rimane sospeso nel vuoto. Il pensiero non è mai fine, bensì mezzo o strumento: strumento per la conoscenza. E neppure la conoscenza è il fine, poiché il fine è sempre e solo la verità. Di conseguenza, il pensiero si trova due gradini al di sotto della verità; il conoscere, un gradino. Non bisogna confondere i mezzi coi fini, o viceversa. Invece il pensiero moderno si pone come se fosse il fine della conoscenza, e questo proprio perché dà per scontato che la verità non sia raggiungibile, né conoscibile, né esperibile. Logico: è la (cattiva) lezione di Kant: non c’è la cosa in se stessa; o meglio c’è, ma nessuno la potrà mai conoscere (il che dovrebbe far sorgere almeno il dubbio che esista una cosa di cui si afferma l’assoluta impossibilità che la si possa conoscere, un po’ come l’inconscio di Freud: se è inconscio, come fa la coscienza a dire che c’è?). Ma allora cos’è la filosofia, se non un sonno, fatto – per dirla con Shakespeare (ne La tempesta) – fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? Non stupisce che questo dubbio atroce si affacci fin dall’inizio e getti la sua ombra inquietante sulla nascente modernità: ad esempio in La vita è sogno, di Pedro Calderon de la Barca, e poi, passando per Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, fino a Matrix dei fratelli (ora sorelle) Wachowski. La filosofia si è ridotta a gioco di opinioni, balbettio, squittio, divagazione mascherata da ermeneutica, una specie di calligrafismo per pensatori a mezzo servizio; i più sinceri dei quali hanno anche coniato il termine giusto per definire il loro ambito di ricerca, pensiero debole, che è pressappoco come dire rinuncia alla filosofia. Perché la filosofia o è pensiero dell’essere, o è qualcos’altro; e la speculazione o è metafisica, o non è tale. Una filosofia che esclude in partenza la metafisica è una contraddizione in termini: anche di questo dobbiamo ringraziare Kant.
Ma quand’è che il pensiero diventa debole ed è spinto a confessare la propria impotenza? Quando smette di credere alla verità, alla possibilità di giungere al vero. Allora ripiega su se stesso e si mette ad arzigogolare intorno a ciò che ritiene inaccessibile: ed ecco la filosofia del linguaggio, lo strutturalismo, l’esistenzialismo, la fenomenologia, tutte forme di pensiero che possono avere la loro ragione di esistere se finalizzate alla metafisica; senza di essa, sono un continuo girare a vuoto. Abbiamo detto che rinunciando alla metafisica, il pensiero perde di vista l’oggetto: singolare paradosso. Il pensiero moderno si è sbarazzato della metafisica come di un’inutile zavorra credendo di farsi più leggero e poter meglio aderire alle cose, cioè all’oggetto; ma la verità è che le cose non sono l’oggetto, manca quel quid che non appartiene al mondo visibile, perché il reale è formato dalle cose più qualcos’altro. Per cogliere il reale bisogna abbracciare la totalità dell’essere, e dunque fare della metafisica; se ci si limita alle sole cose, al solo mondo visibile, quantificabile, esperibile, si può credere di essere realisti, ma in realtà si cade nell’astrazione, perché le cose sono solo la facciata dell’essere, e non di rado una facciata ingannevole. Bisogna andare oltre la facciata, oltre il transitorio e l’accidentale: bisogna andare alla cosa in sé, il Noumeno. Anche se ciò non piace a Kant e a tutti i kantiani di ieri e di oggi. L’idealismo, per esempio, è la tipica filosofia post-kantiana: alle cose sostituisce il pensiero e al reale, lo spirito (anche se non si capisce mai bene di quale “spirito” si stia parlando: invero a quei signori si addice un certo margine di ambiguità, perché se ogni concetto venisse definito con chiarezza, tutti i loro sofismi e le loro fumisterie non troverebbero più dei pretesti per mantenersi, e svanirebbero come nebbia al sole, mentre così possono sempre dire che siete voi a non capire). Ma lo spirito e il pensiero sono astrazioni, se prescindono dal fondamento dell’essere: ogni casa deve avere le sue brave fondamenta e senza l’essere non si dà né spirito, né pensiero. Resta solo il nichilismo puro: e per quanto essere nichilisti, o meglio atteggiarsi a nichilisti esistenziali, possa anche risultare un passatempo come un altro, tutto quel che si può dire di un nichilista è che si tratta di un aspirante suicida non abbastanza coerente da trarre le conseguenza della propria Weltaschauung, tanto più che molti di essi non sanno neppure di esserlo. La cosa non è strana come potrebbe sembrare, dal momento che il nichilismo è l’orizzonte di (non) senso della civiltà moderna: e in un mondo dove tutto è orientato al nichilismo, come si fa ad accorgersi di essere nichilisti? Le anatre non sanno di essere anatre, finché restano in mezzo alle loro simili; per capire cos’è un’anatra, bisogna essere un brutto anatroccolo, ossia un cigno.
Resta la domanda cosa si possa fare per tornare alla metafisica e così riprende il dialogo interrotto alcuni secoli fa tra il soggetto e l‘oggetto del pensiero filosofico. Per noi la strada è chiara: ritornare alla metafisica significa ritornare a Dio: l’uomo moderno ha perso il contatto con il reale, disancorandosi da esso, quando ha voluto rifiutare la giusta relazione con Dio, cioè la relazione fra Dio e la sua creatura. Al contrario, l’uomo moderno ha preteso di farsi creatore: la scienza e la tecnica moderne servono la follia, non sempre ben chiara alla coscienza, di rivaleggiare con Dio e, di sostituirsi a Lui. Ma è la relazione creaturale con Dio, fatta di amore e rispetto, che permette agli uomini d’innalzarsi alla contemplazione della verità: perché Dio è la Verità, e credere che la verità sia accessibile significa credere a Dio. Non un dio qualunque, ma Dio che si è fatto uomo per condividere sino in fondo la condizione delle Sue creature, e mostrar loro la strada verso l’eternità prima di ritornare al Padre.
Come scrive san Paolo ai Romani (1, 18-22):
18 In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19 poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. 20 Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; 21 essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. 22 Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23 e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.