A proposito dell’orrore, di cui scrivevo la settimana scorsa, m’era venuto a mente un ricordo – quando s’invecchia ci sono immagini che ritornano prepotenti e che non possedevamo più in apparenza il dominio. Ho condiviso per un breve periodo il cortile del carcere di Regina Coeli, reparto chirurgia, con Luciano Luberti. Era il 1972. Da poco l’avevano catturato, dopo un conflitto a fuoco nella zona di Napoli dove si era rifugiato. Aveva allora cinquant’anni o poco più- Era un omone irsuto dalla folta barba spiovente sul petto, gli occhi irosi e iniettati di sangue, la voce roca dai toni aspri, il gesto brusco. Simile a molla, un po’ arrugginita e scrostata, pronta però a scattare, a colpire. Era tornato alle cronache, quando nel gennaio del ’70 aveva ucciso con un colpo di pistola – sebbene si fosse sempre proclamato innocente – la sua amante, una profuga istriana di vent’anni più giovane. Una vicenda di amori e tradimenti e gelosie. L’aveva adagiata sul letto cosparsa di fiori e profumi, chiuso l’appartamento e fuggito. Il corpo era stato poi rinvenuto in avanzato stato di decomposizione dalla polizia su segnalazione dei vicini, allarmati dal cattivo odore che s’espandeva sul pianerottolo. A scavare nel passato di Luberti ci avevano pensato i giornalisti, attirati da una vicenda da fotoromanzo stimolante la curiosità morbosa dei lettori.
‘Il boia d’Albenga’, questo l’appellativo e ci stava tutto – di cui se ne faceva vanto – durante gli anni della guerra civile. Era giunto nella cittadina ligure dopo essersi arruolato direttamente nella marina tedesca dopo i giorni nefasti dell’8 settembre. In qualità d’interprete assegnato alla Feldgendarmerie, dove venivano giudicati reali o presunti partigiani, tutti i loschi figuri che prosperano in tempo di odio rovine morte. Di fatto il suo compito si risolveva nel lavoro sporco, estorcere informazioni sotto la tortura prima del colpo alla nuca nei pressi della foce del fiume Centa. Qui furono ritrovati al termine della guerra cinquantanove cadaveri, ma si parlò di duecento esecuzioni di cui Luberti era stato partecipe e di cui, anche qui, se ne faceva vanto. Dalle carte del processo una sequenza di orrori ma, entrata in vigore l’amnistia Togliatti, annullata la condanna a morte e scarcerato.
E’ l’ora d’aria, come si dice in gergo. Scendo in cortile. Luciano, iroso più del solito, solo. Gli altri detenuti lo evitano. Mi agita un quotidiano; mi indica un articolo in cui a suo dire il giornalista ha estrapolato frasi dal suo libro Fiamma e…
‘Guarda cosa mi hanno messo in bocca. Non ho mai scritto che c’è un godimento superiore all’orgasmo e questa è la strage…’.
Cerco d’abbonirlo, ricordandogli come si fosse fatto vanto d’aver mandato al palo cento undici partigiani (condividendo come il fantino dà al cavallo la zolletta di zucchero) e neppure un pentimento. Cosa poteva aspettarsi…
Mi racconta Luciano. ‘Dalla mattanza del 25 aprile mi salvo. Così per strano caso del destino o chissà per quale altra diavoleria, mentre ragazzini arruolatisi magari il giorno prima venivano scannati come capretti, io in fondo me lo meritavo, me la cavo. Finisco più tardi nel carcere di Marassi. Ne esco con l’amnistia. Sono in strada, per le vie di Genova. Mi si avvicina un giovanotto con la mano in tasca. Mi si rivolge – Siete voi Luciano Luberti, detto il boia di Albenga? – Se hai la pistola e mi vuoi sparare, fallo subito… tanto ‘sta vita ormai mi fa schifo. Mi guarda abbozza un sorriso mi mostra la mano nuda. – No – mi dice – Volevo stringervi la mano. Siete Voi che avete ammazzato – e mi fa il nome di due partigiani. Li ricordavo bene. Gli avevo messo le mani addosso così bene che li dovettero legare alla sedia per fucilarli tanto poco si reggevano in piedi. E aggiunge come costoro, con altri, erano discesi dalle montagne e avevano depredato il casale, lui assente, dove vivevano le sue sorelle le avevano stuprate e con la testa giocato a palla… Insomma io, concludeva, sono il boia di Albenga, gli altri patrioti eroi martiri’.
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