Già in Strade d’Europa e introducendo il Domrémy di Brasillach avevo fatto cenno alla Spagna da “le strade brulle e rosse”, a Barcellona a Madrid a Toledo. A luoghi a me cari ove si fondono e si rinnovano riflessioni sulle vicende storiche personaggi e momenti di vita affettiva e personale. Oggi – e il lettore sia benevolo e tollerante – vi ritorno sopra e scrivo e mi scrivo…
Liberato da prosaiche chiavi di lettura che lo vogliono – ed egli stesso ne dà voce – sarcastico ed ironico verso l’etica dell’hidalgo – Cervantes mi ha donato un amico e cioè il cavaliere del sogno, eterno a cercare avventure, quel Don Chisciotte che s’è accompagnato a Cyrano e ad Emilio di Ventimiglia – il primo spadaccino e guascone dal gran naso e il secondo nelle vesti vendicatrici del Corsaro Nero – che mi furono e sono rimasti fedeli compagni della mia giovinezza. Scrive il Cervantes: “Barcellona è il soggiorno della cortesia, asilo agli stranieri, ospedale dei poveri, patria di uomini illustri, rifugio degli esiliati, centro comune di tutte le amicizie sincere, città unica per la sua bellezza”. Non ne sei forse viva dimostrazione, Ernesto, camerata di sempre?
È sera. Il Mediterraneo porta sollievo con la brezza vivace e ardita a mitigare una giornata calda e umida. Passeggiamo lungo la riva, noi due innamorati, in quella stagione ove s’era irriverenti ed inquieti, nei pressi della statua dedicata a Cristoforo Colombo ove la Rambla (alcuni si ostinano a chiamarla al plurale, sebbene si tratti di una sola ampia strada che scende verso il mare) si conclude e s’affaccia lasciandosi lambire dall’onda pigra. Tu abbandonata la terra degli elfi e delle selve e del Reno; io stanco dell’ombra esangue di Roma. In quella Catalogna tanto cara a Brasillach, il mio fratello più caro. Ancora il regime di Franco, che non possiamo amare privo del richiamo all’”unità di destino nell’universale” di cui riempiva di sogni José Antonio e la Falange. Quante illusioni, quanti inganni, eppure quanto grandi erano, nonostante tutto, rispetto alla pochezza dell’oggi…
In questo clima di reclusione collettiva, di sospetto reciproco per un colpo di tosse e la mascherina a nascondere il tratto, in questa reclusione forzosa fra mura di stanze vuote (tra sbarre e chiavistelli v’era la sfida un grido libero e ribelle nostro ostinato pretendere “più vita” !), m’attardo a sera a vedere Il ciclone di Leonardo Pieraccioni. Le ballerine di flamenco nell’aia della cascina… E il linguaggio del corpo si protende e pretende ascolto. Una sera a Barcellona, sotto la statua del navigatore genovese la sigaretta offerta ci regalò l’invito ad accompagnarci oltre il limitare della città.
Te ne ricordi? Assistemmo sullo spiazzo sterrato e polveroso di un campo di gitani, giovani donne ballare, con la medesima grazia selvaggia ed austera al contempo, al canto e alle movenze sensuali della Habanera. Forse il suono della chitarra le voci aspre per un bicchiere di troppo di vino tinto il ritmo cadenzato al suolo sapranno perforare i confini del Nulla e la memoria ti strapperà – magari fugace attimo – al silenzio cupo e desolato ove risiedi e ormai da troppo tempo mi attendi. Ballammo alla luce delle lampade oscillanti e richiamo di efemerotteri e falene. Liberi dai lacci di troppe convenzioni, di troppe ipocrisie. (Solo quando il volto grinzoso e aquilino ti fissò intensamente e scosse il capo ritraesti la mano, come presaga. La chiromante era foriera di un accadere a noi ignoto e pur prossimo? Come la nostra esistenza che chiamavamo immortale. Quien sabe!?