Jünger: la sfida del ribelle [4]
Se gran parte delle riflessioni di Jünger è non solo condivisibile, ma ricca di prospettive anche per la nostra inquieta contemporaneità, occorre pure segnalare dei limiti che ci sembra di incontrare nel corso della sua riflessione, specialmente dove essa ritiene che la paura debba essere debellata dal singolo che fa parte per se stesso, approfittando della distruzione degli antichi organismi operata dai potere collettivi. Si tratta di una movenza tipica del pensiero dello scrittore tedesco: accettare la distruzione per non soggiacere alla distruzione, rivelatore di quell’ottimismo letterario, tipico di Jünger, che lo porta a credere che basti che l’uomo apra gli occhi e dica di no affinché l’ordine venga ristabilito.
Aprire gli occhi e dire no è certo una necessità propedeutica, ma è ben difficile, una volta distrutti gli antichi legami, che si possa ristabilire un ordine; al più si resta sul piano della rivolta anarchica. Ci sembra proprio questo il caso delle rivendicazioni dei centri sociali o del defunto movimento no-global, da sempre “utili idioti” dei poteri forti e del mondialismo, che nascondono dietro una protesta sterile il sostanziale sostegno alle politiche neo-imperialiste del capitale finanziario.
Un altro punto debole della riflessione jüngeriana si riscontra, a nostro avviso, laddove si sostiene che la ribellione inizia da una critica alla nostra epoca da parte di quegli eletti che preferiscono il pericolo alla schiavitù, aggiungendo, subito dopo, che lo sguardo del Ribelle non deve rivolgersi al mondo dei Padri e delle gerarchie – che sarebbe solo una restaurazione conservatrice – ma a quello delle Madri al cui contatto si sprigionano le energie primigenie e profonde che devono però trovare una forma per non divenire puro impulso, alla lunga distruttivo. E ciò nonostante che Jünger comprenda che il divenire sia la principale illusione ottica dell’èra della tecnica a cui mette fine il Ribelle col suo passaggio al bosco per conquistare la libertà. Dal divenire separato dall’essere matura piuttosto il benessere che spegne ogni capacità di reazione e fa sì che l’intelligenza critica lasci il posto alla schiavitù del pregiudizio e del politicamente corretto.
La speranza jüngeriana è quella di un uomo che si faccia avanti tra tanti milioni di esseri umani; un uomo su cui nulla possano l’odio, il terrore, l’automatismo dei luoghi comuni. Un uomo che non può sperare nelle Chiese che se conservano ancora tesori, sono preda del Leviatano nel loro aspetto istituzionale, sono anch’esse sul Titanic e non possono offrire assistenza all’uomo che, solo nel bosco, può evitare che i deserti crescano dentro di lui. Per questo, abbandonato dalle fedi, l’uomo cerca risposte nella miriade di oggetti che lo circondano, come se nel possesso fosse ancora possibile affermare se stessi. Di qui la credulità dell’uomo contemporaneo e, al tempo stesso, la sua irreligiosità: non crede più in Dio ma in ciò che legge su internet, a dimostrazione che effettivamente l’uomo che non crede nel divino, qualunque forma gli attribuisca, non è che non creda più a nulla, ma anzi si dispone a credere in qualunque cosa.