L’era del cinghiale bianco

 

L’era del cinghiale bianco

A Pescara si scioglie il gelato al pistacchio del cavaliere Alberto da Giussano, il Governo del cambiamento andrà in soffitta con gli alambicchi d’ un laboratorio politico antagonista alle rancide minestre riscaldate, spegnendo il focherello di una rivoluzione bianca ma dai colori giallo-verdi. I corvi rossi sbucano dagli armadi appollaiandosi sui rami, gracchiano il solito mantra sull’ impossibilità di mantenere in vita una coalizione ibrida, “innaturale”, fuori da quel coro dei briganti che ha fatto, per decenni, d’Ausonia un bordello al sevizio degli usurai. Anche questa speranza di drizzare su la schiena riprendendo il cammino o persino la corsa, è evaporata, si torna sulla sedia a rotelle andando dove vogliono i badanti. “Quel matrimonio non s’aveva da fare” recitano i Bravi al servizio dell’UE, i tempi ci sono tutti per l’ennesimo inguacchio in Parlamento, c’è da scrivere il DEF, farlo benedire, evitare l’aumento IVA, combattere lo spread, tutto il resto può tranquillamente essere riposto in un cassetto, dalla flat tax alla riforma della Giustizia. La visione onirica antisistema, premessa d’ una nuova era svanisce sulle spiagge, sotto la frescura dei boschi montani, ecco perché ci ronza alla mente quell’auspicio “spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco”.

Ha già compiuto i suoi primi quarant’anni questo brano pop-rock di Franco Battiato & Giusto Pio, testo del Maestro di Ionia, note col violinista di Castelfranco Veneto (m’incanta la sua Legione straniera), overture della canzone è una sua riff musicale sfregando con l’archetto lo Stradivari.

Pieni gli alberghi a Tunisi/per le vacanze estive, sono le Feriae Augusti, ora l’era dell’orso veste il bikini o le petule sui sentieri rocciosi, si scacciano i pensieri come mosche stizzose, il riposo è tutto esaurito come da antica tradizione, qualcuno lo passa a meditare all’ombra dei chiostri cercando la propria identità, qualcun’ altro nei corridoi grigi del Palazzo col livore di perderla tornando uomo qualunque e per questo lavora ad un bis magari con truppe mercenarie.

Il violino di Giusto Pio scheggia le corde del liuto trasportandoci in una dimensione mitica oltre quelle pause d’attesa drammatica del brano, sonorità new wave che stridono tra loro, dall’oggi della carne evocano la leggenda celtica di un’età della conoscenza assoluta, dello spirito, sepolta nella terra leggendaria di Iperborea di cui parlava Pindaro.

“Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità… Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita per interi millenni di labirinto. Chi altri l’ha trovata? Forse l’uomo moderno? “Non so che fare; sono tutto ciò che non sa che fare”, sospira l’uomo moderno […] E’ di questa modernità che c’eravamo ammalati, della putrida quiete, del vile compromesso, di tutta la virtuosa sporcizia del moderno […]” scriveva F. Nietzsche ne L’Anticristo. Il nostro peccato mortale è la rassegnata disillusione, l’essere vissuti, al passivo, contro lo slancio dionisiaco della vita, restare depressi sulla riva del Gange o del Giordano senza immergersi per purificarci dai coralli del male, tornando pietra bianca, lucente. Non siamo Druidi o Brahmani (sacerdoti), tanto meno Kshatriya (nobili guerrieri) dell’arcaica tradizione indù. Il cinghiale albino quanto il possente orso hanno conosciuto la ghigliottina in Piazza del Trono rovesciato, giubilano i borghesi e i servi giocando con le teste mozze, siamo dentro senza collo nel Kali Yuga, l’era della discordia, dell’ipocrisia descritta nei testi vedici. E’ questo il regno della quantità brulicante di termiti focalizzato da R. Guénon, cui tutti, senza snobistici distinguo, uniformiamo le esistenze esorcizzando la paura d’essere abbandonati sull’isola di Aguas Buenas come il marinaio Alexander Selkirk, spunto di Defoe per il suo Robinson.

Restar da soli è il rischio del coraggio, una virtù del cavaliere di A. Dürer, sfida alla morte e al diavolo, meglio restarcene quieti nel ripostiglio purché ci sia campo.

Non sappiamo che fare, siamo tutto ciò che non sappiamo che fare, perché la testa è una soffitta di cosucce da mettere al loro posto, dalle grandi alle più piccine, esse governano la vita quotidiana, succhiandoci l‘identità o peggio trasferendola a se stesse, in fondo il nostro esserci è tutto in banca.

Spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco ripete il refrain messianico del brano di Battiato, ma come? Affrettando la fine dei tempi come sostiene il camerata Sandro, oppure consumando il rituale del seppuku dopo aver letto a voce alta il Proclama di Mishima.

Noi che non crediamo ai falsi profeti, alle chimere, noi che al sorgere del sole non pratichiamo lo Yoga ma la sigaretta, sappiamo com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire senza annusare lo zolfo di tanto esoterismo, lo gnosticismo dell’armeno Gurdjieff per il quale gli uomini, collaboranti o no, trasformano solo energia partecipando dei processi cosmici, facendosi “cibo per la Luna”.

Non pazziamo, è agosto, il pollaio vorrebbe abbandonarsi alla leggerezza dei sogni nel riposo, ma i galli hanno cantato all’improvviso e allora, nel caos che ne seguirà, ci torna alla mente il disincanto magico di due amanti che scrutano nel cielo la caduta delle stelle nella notte di S. Lorenzo, esprimendo lo stesso desiderio d’un amore infinito, è lì forse l’essenza del cinghiale bianco e ciò che rimane delle nostre speranze.

A tutti Buon Ferragosto nonostante i Bravi.

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