L’Italia che verrà

 

L’Italia che verrà

[Nell’immagine: Francesco Hayez, La Meditazione, olio su tela, 1851]

Le code d’asino del copricapo dei giullari (politici & giornalisti) hanno vibrato il tintinnio dei sonagli, evviva la Caritas UE che ci lancia da Bruxelles il salvagente da 209 miliardi di €, un’ottantina a fondo perduto e vien da dire, sfregandosi le mani pretine: benedetto il COVID, unico grimaldello per aprire le casse della BCE; la guerra è vinta, i nemici (sovranisti) battuti, “non c’è più nessuno, solo aghi di pino e funghi, buoni da mangiare per l’anno che verrà.

Il prof. Conte, quel signore che non ha un voto in tasca, quello che pensa A, dice B e fa C, quello che conosce tutte le coniugazioni del verbo dovere, sì proprio lui è stato promosso statista nei sondaggi, ha visto approvato anche lo scostamento di Bilancio, il prolungamento dello stato d’emergenza, ora la corte in topless rosso giubila nel Palazzo blindato o sul bagnasciuga (non quello di Lampedusa). Ce l’ha fatta l’avvocato a portarci a casa il bottino di guerra (quella dichiarata da un virus) dopo lunghe, estenuanti trattative grazie all’asse continentale Parigi-Berlino, è un malloppo che stanzia al Bel Paese il 28% del Recovery Fund, L’Europa si salva dall’abisso dell’Unione, anzi ne esce, dicono, più forte e solidale, manda dietro la lavagna gli euroscettici, i frugali, schiaffeggia i sovranisti (un neologismo per sostituire l’abusato fascisti). Insomma  s’ è stappato prosecco danzando come ai tempi del piano Marshall, la maggioranza è salva, coesa, si può andare in vacanza frinendo da cicale, mentre le formiche operaie non hanno di che portare a casa per sfamarsi.

Mentre in questa torrida estate la terra guarda al cielo con la lingua di fuori aspettando cada una goccia dal cielo, continuano invece a piovere miliardi stanziati, promessi, ma che nessuno o quasi ha visto, ma si sa che la promessa è la chiave per aprire alla speranza e d’altra parte il salva vita dell’opposizione si riduce ad una sola miracolosa pozione: elezioni anticipate.

Da nonni raccontiamo ai nipotini la bella favola che inizia come tutte così: C’era una volta… l’Italia, quella dipinta nei libri di Storia delle elementari, con i suoi padri, madri, eroi, le sue sconfitte, le sue vittorie ma sempre a schiena dritta condita da quell’aristocratica fierezza che sola hanno le donne del nostro sud, madri, sorelle, mogli di tanti uomini partiti come soldati per conquistare terre, pane e lavoro e che in tanti, forse troppi non sono tornati.

Fatto sta che l’Italia vagheggiata dai primi carbonari, inesistente come Stato al Congresso di Vienna del 1815, calpestata per secoli da tomaie straniere, nel 1936 era un impero cui nel ’39 si aggiunse l’Albania.

Poi una guerra folle, devastante sciolse le ali di Icaro al calore delle bombe e la bella Italia fu fisicamente ghigliottinata dei suoi arti, del valore di Patria, col Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, pagine amarissime che non si studiano sui banchi della scuola.  Un’ombra è scesa sull’altare della Patria fu l’occhiello del Corriere d’Informazione sopra il titolo in prima pagina “Alle 11,35 firmata la nostra dura condanna”, (in realtà erano le 11,15), il Paese intero si fermò per qualche minuto di amaro silenzio. Quell’Italia costruita da generazioni con un sacrificio umano di giovani vite, da Custoza (1848) all’Albania (1939), firmava la sua decapitazione sigillandola con l’anello nobile del firmatario Antonio Meli Lupi di Soragna (chi era costui si chiederebbe don Abbondio) delegato dal Ministro degli Esteri Carlo Sforza, l’Italia dei padri, faro della civiltà occidentale, regina nello scacchiere del mondo, come sosteneva Ardengo Soffici, diventava un pedone disarmato.

I ginecologi “Alleati” abortivano l’Italietta malleabile, maid, china ai voleri delle potenze usuraie che si distribuivano i suoi gioielli in cambio d’ un assegno da cinquanta milioni di dollari staccato dagli U.S.A. ad Alcide De Gasperi, corsi e ricorsi della storia, l’eterno ritorno incarnatosi negli Euro stanziati per l’Italia accattona del prof. Conte. Così ci sovviene alla mente un sussulto d’orgoglio, quel sacco di juta SZ1 dell’irriducibile Alberto Burri, simbolo di compassione yankee all’affamato Bel Paese, l’umiliazione che la carità fa al bisogno.

L’Italia dei padri nobili della Patria non c’è più da un pezzo, Cavour, Mazzini, Garibaldi, i re savoiardi sarebbero sprezzati come biechi sovranisti per non parlare di Battisti (l’eroe non l’assassino), Oberdan, D’Annunzio o peggio di quella mente criminale romagnola rea d’ogni male del Paese.

Già il Paesucolo dove è cresciuta la nostra generazione è mutilato e senza protesi, perciò da sempre arranca da gregario con affanno nel gruppo dei potenti, si accontenta di starci senza mai andare in testa, benedice la borraccia lanciata sulla salita, per tappare le gomme si prostituisce nei palazzi di vetro, Washington, Bruxelles, Istanbul o Pechino non fa differenza purché si facciano laute marchette.

L’Italia che verrà somiglia allo stralunato Mr. Micawber, amico di David Copperfield, sempre indebitato fino al collo, con le tasche vuote e mille effetti da onorare, ma come? Beh con la vecchia ricetta rossa mai scaduta: tasse, tagli, teoremi, l’io cocciuto di ciascuno ci salverà dal baratro, ne siamo certi, ma l’Italia Stato è figlia di N.N. in cerca d’affido o d’adozione.

I miliardi europei li inghiottiranno le banche per sanare le “sofferenze” di bilancio, quello che resta andrà alla  green economy, così radical chic a via del Nazareno, alla digitalizzazione, mentre i gioielli di un patrimonio d’arte unico al mondo chissà andranno all’asta perché ai guru ignoranti dell’arte proprio di questa non frega un c…. Ha ragione Roberto D’Agostino, “ognuno vede quello che sa” e questi sanno davvero poco.

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