L’onda lunga del Quernaro

 

L’onda lunga del Quernaro

Verso le otto del mattino, 3 maggio 1945, uomini armati, duri nel volto, con la stella rossa impressa sul berretto, occupano le vie d’entrata della città. Su Fiume l’alba si era annunciata, premessa di un sole assassino. Un addio – e per sempre – alla gioia della primavera là dove le viole sbocciano nei prati e le rose selvatiche fra le piante rampicanti dei giardini; nel mare non una vela una rete gettata nelle acque l’onda si perde sulla riva fra il rovinio del molo e le gru abbattute e solo i gabbiani volano fra le macerie alla ricerca di una sosta negata; le strade deserte le porte sbarrate le per- siane serrate, come d’inverno quando il vento soffia rigido e porta con sé pensieri e malinconie, negozi vuoti e muti. L’attesa di una tragedia annunciata.        

Alle dieci, dalla collina, scende una lunga fila di uomini e animali. Silenziosi, arroganti nell’aspetto e pur spauriti di fronte ai simboli semplici e sconosciuti della città, quel fregio sulla facciata il davanzale di ferro battuto le verande le vie ordinate con i mar-ciapiedi allineati. Occupano un corpo, uno scheletro, un fantasma, lacerano la sua carne per strapparne l’anima a loro estranea e non la trovano. Essa, di nobile fattura italiana, s’è nascosta e partecipe dell’esodo di trecento mila istriani e dalmati… Scendono con le bandiere con i barattoli di vernice a scrivere sui muri l’effimero trionfo si insediano in caserme abbandonate i caporioni preparano liste di pro-scrizione affilano i coltelli pulizia etnica (meno di cinquanta anni dopo il medesimo gioco al massacro fra loro!). Gli ordini sono chiari, la ferocia è innata, con ogni mezzo eliminare le tracce secolari della presenza italiana. E il via alla  mattanza ha inizio la notte stessa. Per tre giorni consecutivi finchè saranno i loro stessi comandanti a decretare venia.                                                                                                                                  

Ho avuto come alunna la figlia di un istruttore della scuola per sottufficiali, Fiamme Gialle, di via XXI Aprile. Gli chiesi se sapeva di una lapide il nome di una stazione del-la Guardia di Finanza o un qualsiasi altro riconoscimento alla figura del maresciallo Vito Butti, responsabile della stazione di Borgomarina (alle porte di Fiume), fucilato il 16 giugno ’45, sembra, a Grobnico, località dell’entroterra fiumano dove oltre cen-to italiani, in massima parte delle forze dell’Ordine, vennero assassinati e di molti di loro non si ebbero più traccia. La risposta fu negativa, come del resto supponevo. E, nonostante l’istituzione del ‘Giorno del Ricordo’ (10 febbraio) su foibe ed esodo, po-co s’è dato a misura del cambiamento.                                                                                          

Del resto non esiste una memoria unitaria e condivisa – non può esserci e, aggiungo, è bene che ciò sia così. Se i vivi non furono uguali, con le loro emozioni e i sentimenti e le ragioni; i morti non sono da meno. Si può, questo sì, chiedere rispetto… ma fin-chè i guitti e i ciarlatani trovano nella vanità di indecenti e servili intellettuali sponda per imbellettare il grugno e lustrare patacche la storia il senso di appartenenza e la militanza (termine ormai desueto) finiranno nel trogolo dei cattivi pensieri e dove il  ogni giorno era ‘il giorno della memoria’ – e, in ‘casa nostra’ ci basta scorrere le pagi-ne di fb per incontrare miserevoli connubi, trovate di accatto al’ombra di simboli a noi cari. Tanto basta, per ora.                                                                                                          

Quando i titini entrano in Fiume, Vito Butti si trova in casa con la moglie croata con le figlie. Qualcuno bussa alla porta e l’avverte che i partigiani stanno portando via i giovani finanzieri della stazione di Borgomarina. Non vi sono esitazioni, non un moto di incertezza il pensiero fugace di nascondersi salvare la pelle. Chiede alla moglie di portargli l’uniforme d’ordinanza, che lei stessa gli ha cucito, l’indossa abbraccia la moglie e ‘Non posso lasciare soli i miei ragazzi!’. Va come si recasse ad una cerimo-nia una parata. Lo ritroveranno, giorni dopo, denudato il corpo torturato. Un tipo umano, il senso del dovere, un ‘regnicolo’ (era nato in Romagna) venuto al di là del-l’Adriatico, in terra d’Istria in terra d’Italia.                                                                                    

Tra pochi giorni, il 10 febbraio, in un paese che non può non deve non vuole ricorda-re. Un paese che di Vito Butti non sa che farsene, meglio dimenticare… negli stessi giorni il Festival di Sanremo. E’ meglio accendere la televisione.

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