La Cina è Vicina

 

La Cina è Vicina

9 novembre 1961: sul cavalcavia dell’autostrada Milano-Torino, poco prima del casello di Santhià un’auto guidata dall’autista della Olivetti Francesco Frinzi si schianta contro un furgone, provocando la morte di Frinzi, e del suo passeggero, l’ingegnere e informatico italiano di origine cinese Mario Tchou, l’inventore del primo computer, totalmente a transistor, realizzato con mesi di anticipo rispetto a quello della statunitense Ibm, allora leader nell’elettronica. L’incidente avvenne ad un anno dalla morte di Adriano Olivetti, avvenuta il 27 febbraio 1960 su un treno per Losanna, teoricamente per emorragia cerebrale, ma non fu mai eseguita l’autopsia, lasciando adito ad ipotesi di complotto a favore delle lobby statunitensi. Come si scoprì, in seguito alla desecretazione di documenti della CIA, l’industriale e l’ingegnere furono oggetto d’indagine da parte della stessa agenzia di spionaggio statunitense.

Mario Tchou era nato a Roma il 26 giugno 1924, figlio del diplomatico Yin Tchou, che lavorava nel Consolato di Taiwan presso la Santa Sede. Dopo la maturità classica conseguita al Liceo Torquato Tasso di Roma, intraprese gli studi di ingegneria elettrotecnica in Italia, all’Università di Roma, nel 1949, sposò l’italiana Mariangela Siracusa. Nel 1952, all’età di 28 anni, fu chiamato a insegnare alla Columbia University di New York, nel dipartimento guidato da John R. Ragazzini. Data la sua conoscenza dell’elettronica, nel 1955 Adriano Olivetti su suggerimento di Enrico Fermi lo portò in azienda, e gli affidò l’incarico di formare un gruppo di lavoro che, in collaborazione con l’Università di Pisa, avesse l’obiettivo di progettare e costruire un calcolatore elettronico tutto italiano. Il laboratorio fu aperto a Barbaricina, un quartiere della città di Pisa, posto nella periferia occidentale della città, a nord del corso dell’Arno, aveva un suo progetto specifico, la progettazione della prima calcolatrice commerciale, l’Elea (Elaboratore elettronico aritmetico). L’acronimo si ispirava all’antica città della Magna Grecia sede di scuole di filosofia, scienza e matematica. Tchou si occupò personalmente della selezione del personale, privilegiando candidati sotto i 30 anni e in possesso di requisiti come entusiasmo, spirito innovativo, immaginazione e capacità di lavorare in gruppo.

Tra i primi assunti, figuravano pionieri dell’informatica come Franco Filippazzi e altri tecnici e scienziati che furono poi ricordati come i “ragazzi di Barbaricina”. Nel 1957 il gruppo realizzò il primo prototipo del nuovo elaboratore, l’Elea 9001 che era a valvole e quindi di grandi dimensioni. L’anno successivo seguì l’Elea 9002, più veloce della versione precedente, Tchou, tuttavia, ne sospese il lancio sul mercato poiché intuì che grazie all’emergente tecnologia dei transistor sarebbe stato possibile costruire una macchina senza valvole, più veloce e meno costosa. Il laboratorio fu spostato in provincia di Milano, a Borgolombardo, dove il team riuscì a portare a compimento il progetto.

A novembre del 1959 Adriano Olivetti presentò al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi l’Elea 9003, il primo computer totalmente a transistor completamente all’avanguardia per l’epoca. Per il design era stato coinvolto Ettore Sottsass (Innsbruck, 14 settembre 1917 – Milano, 31 dicembre 2007) realizzatore nel 1938 del “Palazzo della moda”, l’odierno “Torino Esposizioni”, già director di Poltronova azienda di Agliana, (PT). Sottsass in anticipo sugli anni della contestazione, propone il design come strumento di critica sociale. La scomparsa di Adriano Olivetti, e di Mario Tchou incisero sulle sorti dell’azienda nel campo dell’elettronica. Prima di morire, Tchou stava lavorando a un nuovo calcolatore, per il quale aveva affidato al matematico Mauro Pacelli il compito di sviluppare una nuova architettura e un nuovo linguaggio. Poco dopo la divisione elettronica della Olivetti fu dismessa e nel 1964 fu ceduta all’americana General Electric.

A sessant’anni dalla sua scomparsa, l’eredità di Mario Tchou nel campo della tecnologia e in quello culturale, incarna l’eccellenza italiana e inoltre rappresenta una testimonianza di reale integrazione fra culture diverse, nello scorso anno il Consiglio comunale di Prato, città con una forte presenza di residenti di origine cinese, ha approvato una mozione per intitolare una piazza a Mario Tchou. «(..)  le cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria.» L’Olivetti non aveva sostenitori nel mondo politico, ed anzi, l’establishment di Confindustria, egemonizzato dagli Agnelli, e del mondo bancario, egemonizzato da Mediobanca di Cuccia, strettamente legati al Capitalismo Statunitense erano impaurite dall’idea di perdere il predominio interno alla colonia Italia (Fra l’altro le due aziende erano quelle che maggiormente avevano usufruito dei contributi previsti dal piano Marshal).

La vicenda di Mario Tchou, è solo una delle tante di una storia millenaria che unisce l’Italia alla Cina, Durante il Fascismo, prima dell’accordo con Germania e Giappone, le relazioni economiche e politiche tra i ns. paesi sono state intense come mai in precedenza. Vennero inviati dei consiglieri italiani in qualità di esperti della Società delle Nazioni, personalità politiche cinesi vennero in visita in Italia e furono ricevute con tutti gli onori da Benito Mussolini. Si parlò di cooperazione industriale e di sostegno ai programmi di Chiang Kai-shek per modernizzare e rinnovare la nazione. Il punto di svolta nei rapporti tra i paesi arriva con la nomina da parte italiana di un ambasciatore di elevato profilo politico nella persona di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e futuro ministro degli Esteri. Ciano arriva a Shanghai nel 1930, con Edda Mussolini. L’industria Italiana abbandonato Giolitti si era rifugiata sotto l’ala protettiva del Duce del Fascismo, le reti si costruivano attraverso viaggi e tavoli negoziali, ogni visita di stato aveva un significato politico, ogni cena di gala poteva spostare, modificare, rafforzare l’alleanza tra paesi. C’era il “mercato”, certo, ma c’era soprattutto la politica, le alleanze, e il desiderio di scambiare non solo merci ma anche cultura e progresso.  

Leggenda narra anche di una intesa particolare fra la figlia del Duce e Zhang Xueliang, ex signore della guerra che in due turbolente settimane nel 1936 ha contribuito a cambiare il corso della storia cinese (fu protagonista dell’incidente di Xi’an” del 1936, quando Chiang Kai-shek, capo del Governo nazionalista, fu detenuto allo scopo di forzare il cambiamento delle politiche verso l’Impero giapponese e il Partito Comunista Cinese La crisi si concluse dopo due settimane di negoziati, e Chiang fu rilasciato e riportato a Nanchino. Chiang accettò di porre fine alla guerra civile e Zhang trascorrerà i successivi 55 anni agli arresti domiciliari, diventando gradualmente un eroe nazionale).   Zhang, simpatizzante del fascismo, riponeva nel Duce una speranza particolare, credendo che solo Mussolini avrebbe potuto salvare la Cina dalla crisi. Con la fine della seconda guerra mondiale i rapporti con Pechino si raffreddano soprattutto dopo la nascita della Repubblica popolare cinese. Negli anni Cinquanta il Partito comunista italiano troppo filosovietico, viene considerato un nemico. E infatti a riagganciare i rapporti con Pechino a metà degli anni Cinquanta non saranno i comunisti ma socialisti, cattolici e alla fine del decennio successivo anche fronde dell’estrema destra. Enrico Mattei con l’Eni, nel 1958 vola a Pechino per aprire nuovi busines.

 La Sinofilia e la Sinofobia della politica attuale sono entrambe esasperazioni ignare di una storia millenaria, fatta di contaminazioni e di rispetto, “la Cina è vicina”, può essere un nemico o un alleato, ma resta detentrice di una storia millenaria, storia che il paese probabile mandante degli omicidi di Mario Tchou, Adriano Olivetti, Enrico Mattei, etc. non avrà mai. “(..) a me l’America non mi fa niente bene. Troppa libertà, non c’è niente che appiattisca l’individuo come quella libertà lì, (..) te la mettono lì, la libertà è alla portata di tutti, come la chitarra. Ognuno suona come vuole, e tutti suonano come vuole la libertà” cantò ne L’America Giorgio Gaber nel 1995.

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