La città perduta

 

La città perduta

Antònio de Oliveira Salazar dominò la scena politica del Portogallo dal 1932 fino al 1968 quando, invalidatosi, fu costretto a ritirarsi e morire il 27 luglio del 1970. Il suo regime sopravvisse fino al 1974 quando, con la cosiddetta ‘rivoluzione dei garofani’, il Paese si adeguò alle regole della democrazia parlamentare.

Estado Novo, sorta di  sistema corporativo (forte l’influenza della dottrina sociale della Chiesa) su modello del Fascismo italiano di cui Salazar fu estimatore. Attento, però, ad evitare eccessive collusioni che avrebbero compromesso, in politica estera, la neutralità, considerata l’unica possibile nel secolare ricatto ad opera della Gran Bretagna. Non priva di gesti nobili e significativi, almeno sul piano morale (in fondo, con il tracimare della storia, sono quelli che valgono oltre il vento del cambiamento).                                                           

Ne voglio ricordare due. Quando le sorti del conflitto si mostrarono favorevoli agli alleati e tanti Stati corsero alle armi, nel momento della vittoria annunciata (forme vili modello 8 settembre), egli tenne a precisare come ‘un sentimento di pudore, di dignità e di umanità non consentì che il nostro atteggiamento venisse cambiato’. Il pudore qui sta nelle parole usate non nel gesto, alto ed altro. Nel maggio 1945, con de Valera, presidente della Repubblica d’Irlanda, fu il solo capo di stato ad esprimere all’ammiraglio Karl Doenitz le condoglianze per la morte del cancelliere Adolf Hitler. Atto formale, di prassi diplomatica, ma in quelle circostanze anche qui gesto alto ed altro. Basterà confrontarlo con il silenzio di Franco…                                                            

Lisbona sorge sull’estuario del Tago e si affaccia sull’Oceano Atlantico.   Santa Apòlonia la stazione. Arriviamo dopo un viaggio di notte, non ricordo più le innumerevoli fermate, i corpi sudati il vocio ininterrotto una chitarra fette di pane cipolla cruda il vino aspro da bere direttamente alla bottiglia occhi curiosi. Abbiamo lasciato Toledo con gli zaini e la poca biancheria che possediamo di quella amara e felice e inquieta  giovinezza che Robert Brasillach aveva definito, ‘l’eminente dignità del provvisorio’. In fondo, in modo radicale ed assoluto, già Charles Baudelaire aveva sentenziato: ‘La grande maladie: horreur du domicile’.                                                           

Nella scatola di fiammiferi un foglietto di carta con il nome del giornalista, che ci deve ospitare, il luogo dell’appuntamento, il caffè Martinho do Arcada, e l’ora. Non ci arriveremo mai. Lisbona rimarrà, appunto, un desiderio inappagato, meta senza traguardo. Un sogno. Chiedo informazioni. Prima, però, ci consentiamo un caffè con latte in tazza grande, in un locale dalle pareti alte e coperte di specchi in cornici stile liberty. Ci basta poco essere felici, illusi.                                                                              

In quella metà anni ’60 a Lisbona e in tutto il paese v’era un’atmosfera inquieta e di sospetto. Non risultava momento favorevole per andarci. Nel 1961, dopo un lungo contenzioso con l’Unione Indiana, il territorio di Goa veniva occupato e trasformato in stato federato con il tacito consenso delle Nazioni Unite. Intanto in Mozambico e Angola, il cosiddetto Oltremare portoghese, dilaga la guerriglia. Poco, dunque, era servito il gesto di Salazar, già nel 1934, di inserire nell’Atto Coloniale come gli antichi possedimenti partecipassero ad una ‘comunità di popoli, i quali, qualunque siano le differenze, si aiutano, si istruiscono e progrediscono, fieri del loro nome e della loro qualità di Portoghesi’. Eclatante il sequestro in mare del piroscafo Santa Maria ad opera del capitano Galvao, oppositore del regime, e condotta nel porto brasiliano di Resipe. Dunque la PIDE, la polizia segreta, era in allerta e non si lasciava sfuggire di controllare le persone sospette. Come noi.                                                                                    

Facciamo un breve tratto di strada; veniamo affiancati dalla classica auto nera; due energumeni ci costringono a salire; ci portano a strattoni in un anonimo ufficio. Qui, ad una risposta mia infelice (ho sempre avuto la pretesa del comico), due ceffoni mi rendono chiara la situazione. E tanto più chiara quando le mettono le mani addosso stringendole i piccoli seni. Mi gioco la carta del giornalista, confidando sia in buona con il Governo. Sono fortunato. Ci caricano di nuovo in macchina; di nuovo a Santa Apòlonia e, in stazione, un treno sembra lì ad attendere proprio noi. Verso il confine spagnolo e addio Lisbona. Per sempre.

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