La danza del capro e la luna sui cimiteri

 

La danza del capro e la luna sui cimiteri

Dioniso Icario la vite da cui si genera l’ebbrezza e la danza il capro ucciso e scuoiato. La tragedia, appunto, trova il suo esordio tanto che il suo significato indica proprio la danza del capro anche se si tende a tradurla al plurale. In questo modo raccogliamo sotto il medesimo cielo stellato – forse estremo grido inane e consolatorio? – pur se le divinità assumono nomi difformi, sempre ostili e avverse rimangono, l’umanità in sé dolente nella sua intierezza. Sul palcoscenico della vita le maschere (la “persona” in latino) amplificano il senso di un destino ascritto e perverso. I Greci hanno saputo, per primi, rendere tutto questo in forma scenica. Il protagonista – sia esso uomo o donna, poco o nulla conta, e se sovente è un sovrano ciò rafforza l’assunto – narra di se stesso, svolge una trama singolarissima ma, al contempo, ogni spettatore avverte che è di lui che si parla a lui ci si rivolge si commuove partecipa magari – non a caso il capro espiatorio viene abbandonato fuori le mura e nella nientità del deserto – se ne rinfranca – quasi che il dolore condiviso sembri dimezzarsi – si accetta, forse si tempra, cede il capo al giogo servile trascinato nel divenire dei giorni… Mi ricordava Nello ormai in tempi remoti, non casuale nel suo essere insegnante di greco e nella città di Torino (dove Nietzsche si raccolse nella follia si firmava Dioniso o l’Anticristo “al di là del bene e del male”) che “se gli dei ci sono contro, peggio per loro!”.                      

Inquieto ed errabondo studente di sedici anni ad ascoltare le lezioni del professor Morelli, anno 1960. Essere né cani sciolti né pecore matte e a cercar la bella morte. Raccontava l’attrice Doris Durante come Alessandro Pavolini l’attirasse nei cimiteri, sotto il chiarore freddo e distante della luna, a parlare di poesia e come, dopo l’8 di settembre, prima ed oltre la cultura a lui tanto cara spettasse al sangue redimere l’Idea e l’Onore. Così richiese, fermo proposito, il rettore dell’università di Bologna, quel Goffredo Coppola, insigne grecista, fucilato a Dongo il 28 aprile, in una circolare affinché non fosse concessa deroga alcuna agli studenti che con la scusa degli esami, si sottraevano al dovere delle armi e a versare, se necessario, il proprio sangue alla Patria, resa matrigna dal tradimento infame del re e di Badoglio. E lo scrittore Carlo Mazzantini rifletteva come i giorni della Repubblica Sociale, che egli aveva vissuto da giovanissimo volontario Emme Rossa, fossero scanditi dal canto fiero e urlato contro le finestre chiuse e dal ritmo cadenzato degli scarponi chiodati sull’asfalto a sfregio e disprezzo di un mondo grigio e vile ed ostile.

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