Preambolo è un ricordo d’infanzia,1960, nella cucina sugosa nella nostra casa in via Palestro a Roma, i grandi discutevano accesi sullo scandalo del film “La dolce vita” di Federico Fellini, uscito nelle sale, turibolo coll’incenso di giudizi morali, “Pape satàn aleppe, Papè satàn” col punto esclamativo, su quel cineasta romagnolo amante dell’onirico vagabondar gaudente tra le curve giunoniche di Anita Ekberg, quei seni erano mammelle del mondo come quelle della tabaccaia di Amarcord. Al tempo nella bachechina parrocchiale s’ appuntava un foglietto col giudizio Romanae Ecclesiae sui film in proiezione, La dolce vita fu stroncato dall’Osservatore romano quanto dal cardinal Montini a Milano nonostante la defence del maggior critico al tempo, Gian Luigi Rondi, cattolico praticante, del gesuita Nazareno Taddei e di mia zia Cilla figlia d’arte.
Vi si narra a episodi continui la cronaca d’ un giornalista cesenate, aspirante romanziere, a pesca di scoop nel ventre della grande meretrice, Roma, e perché no di emozioni e ganci per la sua agognata carriera di scrittore, velleità fragili tra veneri e orchi, scintillante vacuità dell’apparire condita di melanconia esistenziale, spogliarello di valori, disincanto, in un clima di piaceri che trovò la firma nella sceneggiatura di un altro marziano sbarcato nella Città eterna, Ennio Flaiano. Il molle provinciale Marcello Rubini da pescatore finirà pescato nella rete di belle donne disinibite, falene del teatrino notturno tra flash di “Paparazzi” affamati di scandali, giaguari coll’obiettivo aperto nell’iconica via Veneto o in trattoria. L’imperativo è assaggiare il buffet della Città Eterna, dal Cristo volante, alla periferia puttana con tanto di protettore passando per i salotti d’un’intellighenzia pneumatica fin nel nulla d’una nobiltà papalina maschera senza volto di virtù mai esistite, necrosi di una élite immersa in occultismo e chiacchiericcio per occupare il tempo mollo degli orologi di Dalì.
L’Italia “liberata” aveva preso a correre facendo boom col miracolo economico, cuciva l’America sul suo vecchio abito pagano, si prostituiva per essere al passo coi tempi, campare o far carriera nel jet set, Roma era lo specchio del cocktail di laicismo mondano e odore di religione pop, la folla aspetta, aspetta la Madonna che non appare ai due veggenti sull’albero, i riflettori si spengono ma mille mani strappano comunque reliquie dalla pianta. Tutto accade, tutto merita d’essere gustato senza soluzione di continuità, il romanzo resterà carta bianca, la fidanzata di Marcello, Emma, non vestirà l’abito da sposa, matrimonio e prole son roba vecchia, l’amore libero circola sulla Triumph delle occasioni, l’amico intellettuale Steiner, nihilista, anticipa le stragi di famiglia, tragica risposta al nulla, un cazzotto americano stenderà il gallo giornalista innamorato della pin up Sylvia altro che Love, love, love, il vincitore al vinto rammenta la proprietà privata.
C’è tempo alla fine d’assaggiare un’orgia trasgressiva in una villa sul litorale, all’alba i fumi amari della notte si sciolgono davanti a una razza gigante spiaggiata, è ancora viva? Macché è lì da tre giorni morta senza resurrezione. Poco distante da lì l’ex cameriera Paolina appare come donna di paradiso, è felice, luminosa per il suo nuovo posto di dattilografa, la macchina da scrivere di Marcello, digiuna di romanzi, le era servita a qualcosa. La bellezza innocente di quest’umile Beatrice lo richiama, lei gli parla sorridente ma lui non la sente, frastornato dallo sciacquio del mare, finge d’aver inteso, accenna un saluto e s’ allontana coi compari, ormai quella beltà-verità è una sirena, lui un pesce senza spada nella rete della dolce vita o meglio della vita non dolce come argomentava N. Taddei.
L’esegesi di un’opera è un esercizio affascinante, sovente presuntuoso, un duello tra contendenti per conquistare a sé corpo e anima al pari di angeli e demoni, P. P. Pasolini definì La dolce vita il film più cattolico che fosse stato mai girato, di opposto parere l’ala conservatrice della Chiesa ma soprattutto il fosforo laico-progressista, invischiato, al tempo, nei maglioni neri dell’esistenzialismo sartriano. Proprio a questo proposito il regista ebbe a dire in un’intervista: “Mi auguro che vedendo questo film, alla fine tutti provino lo stesso sentimento che ho provato io nel farlo e provo tuttora quando lo rivedo: il tentativo di sdrammatizzare personaggi e ambienti dalla famosa angoscia esistenziale, di guardarla bene in faccia, quest’angoscia, facendone quasi l’amicizia, dovrebbe restituirci un senso di liberazione, quindi di serenità”. E sul protagonista, Marcello, aggiunse: “il film racconta le malinconie, le viltà, le aspirazioni represse, le velleità, le disponibilità, in senso buono e cattivo di uno di noi”. Marcello è l’incarnazione dell’uomo comune uscito dalle macerie non solo di una guerra perduta ma di valori forti sgretolatisi davanti al modello di cultura liberal d’oltre Oceano.
E’ uscito dal mito della caverna, claustrofobia per la nicchia della provincia italiana, è uscito all’aperto a scoprire i sapori, di un mondo di cui ha inteso solo parlare, si lascia rapire, sedurre, schiaffeggiare, chiudendosi in una nuova caverna dove le ombre proiettate alla fine saranno solo virtuali. Un film profetico a sessant’anni di distanza, Paolina è sempre là ma noi non l’ascoltiamo e andiamo altrove.
In quegli stessi anni ’60 Cristina Campo, sbarcata da Firenze a Roma, scoprì il richiamo sacro delle
Icone appena illuminate dal luccichio delle candele durante le messe al Collegium Russicum, fu incontro tattile col trascendente, l’altra sfera della quale parlava Florenskij dal gulag staliniano. Per lei fu Itaca dopo tanto cercare, Marcello invece, dopo la clausura, vuol tornare a vagare senza meta.