La Domenica della vita

 

La Domenica della vita

“L’arte è la Domenica della vita” un aforisma di Charles Baudelaire, sospesi tra lo Spleen grigio della gabbia quotidiana dove si spengono lentamente libertà e fantasia asfissiate dal kantiano imperativo categorico “tu devi” l’arte è la porticina lasciata socchiusa dagli sgherri, quel che non t’aspetti. Sei diffidente nel conquistarne la soglia, poi bambino torni a volare fuori dalle sbarre, travalichi spazio e tempo, bucando la membrana tra visibile e invisibile, passi dall’immanente al trascendente e viceversa, liberato dalla parola, inadeguata perciò inutile, superflua.  

  1. Gide diceva “l’arte è una collaborazione tra l’uomo e Dio, e meno l’uomo fa, meglio è” perché Dio guida idea, occhio e mano, suggerendo forme e linguaggio, in uno stato di comunione tra Lui e l’artista, tra l’opera e i fruitori. Non ci sono dogane sociali (non dovrebbero) perché i frutti di quella collaborazione sono donati a tutti gratuitamente almeno finché l’ermeneutica non ha aggrovigliato l’immediatezza epifanica dell’eucarestia artistica, chiudendola nei meandri oscuri dell’ermetismo intellettuale, maschera elitaria a puro fine economico, il che dà ragione a Ennio Flaiano quando affermava “L’arte è un investimento di capitali, la cultura un alibi”.

Un anziano ingegnere chimico, con un corposo zaino professionale, mi lamentava il disagio da analfabeta che provava nel non riuscire a capire le argomentazioni criptiche dei critici, quando sul nulla dell’oggetto (è nulla se abbisogna di medium per intenderne il linguaggio) costruiscono, con labirinti lessicali, il paravento per i soli addetti ai lavori. Dietro questa liturgia da setta c’è il mercato di Rialto, quello dell’io avulso da ogni cammino ontologico che non sia la prostituzione commerciale.

Karl Popper affermava: “L’arte è l’espressione della personalità: io, l’artista, io sono importante nell’arte: io mi devo esprimere, eventualmente, io devo comunicare. Questo è tutto quello che è importante nell’arte. Ciò ha rovinato l’arte”.

L’Arte con la maiuscola è morta, imbalsamata nei musei, nelle ricche collezioni di mercanti, nei caveau delle banche, viaggia per far moneta, è un giorno feriale della vita, deve produrre altrimenti, si chiedono cui prodest?

E poi ormai fuori dal recinto dell’Estetica, l’arte fai da te s’ è affrancata dalla bellezza, entrambi i termini sono esplosi, tutto è arte, tutto è bello, perciò nulla lo è, per questo si moltiplicano a dismisura le kermesse artistiche, mentre le gallerie spengono le luci.  La tecnica ha “liberato” la creatività di massa, nuda spontaneità dell’atto, tic narcisista dell’io espanso nel fermare l’attimo fuggente condividendolo sui social, ogni gesto lo si reputa arte compresi i selfie, beoti autoritratti in viaggio virtuale, testimoni d’ una recita senza testi, teatrino per tutti a bassissimi costi. Conseguenza dell’infinita produzione d’ immagini e loro riproducibilità è che il ramo d’oro della collaborazione con Dio s’ è inaridito, non produce più da tempo pomi preziosi, unici, i ricacci del fusto sono merce bastarda di consumo, autoreferente come aveva intuito Walter Benjamin.

Padre Marko Ivan Rupnik (gesuita, teologo, mosaicista, docente all’Università Gregoriana di Roma) in un articolo del 2015 sull’Avvenire scriveva nel libro L’autoritratto della chiesa: Della bellezza si è perso il significato e la si è coscientemente distrutta con la filosofia idealista, con il romanticismo, avviando, a mio avviso, una deliberata operazione di distruzione della bellezza, perché radicalmente unita al cristianesimo.

Scriveva Pavel A. Florenskij ne La colonna e il fondamento della verità sua tesi in dottorato di teologia datata 1917, anno della rivoluzione bolscevica: “La verità è il bene attuato come pensiero, mentre la bellezza consiste nello stesso bene e nella stessa verità incarnati in una forma concreta, la cui attuazione nel mondo costituisce il fine e la perfezione. Ecco perché Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo”.

Dov’è il nodo scorsoio che strangola l’arte togliendole il respiro, è nel farsi mondo, immergendosi nel suo relativismo melmoso in fieri, assumendone codici, povertà culturale, decontestualizzazione, sublimazione dei prodotti tecnologici nel fare l’opera (il 3D da forma materiale all’idea senza sporcarsi le mani) e soprattutto dall’Ade del pantano l’artista non riemerge a riveder le stelle.

Questione di innesto nella vite che produce frutti eterni, perciò un problema di amore che non opera per sé ma per gli altri (Giotto, Michelangelo, Tintoretto, Sironi, il russo Vladimir per fare esempi). “L’arte non può pensare di creare senza il martirio dell’arte e dell’artista. Solo così possiamo tornare all’arte, alla grande arte che esprime l’amore e si realizza attraverso la divino-umanità. Per questo ci vuole lo Spirito, l’unico che ci può innestare nel Figlio. […] E questo vale anche per l’artista. […] Se una mamma si santifica amando, se un padre si santifica amando, un artista si santificherà allo stesso modo. È totalmente inutile esaltare un’arte se non si è santificato colui che l’ha fatta. Santificarsi significa consumarsi: questa è per me l’arte della vita, l’arte che diventa bellezzaconclude Padre Rupnik, come non essere d’accordo.

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