La grande bruttezza

 

La grande bruttezza

Non serve consultare Tiresia per toccare il degrado di Roma, meglio esser ciechi come il mitico indovino, risuscitato da Camilleri, davanti al ruzzolare d’una città olim Caput mundi, dal 1870, suo malgrado, Capitale d’Italia (altro che la Parigi del Fazio strisciante).

 Le corse equestri appassionavano già gli Etruschi tanto che il V re di Roma, Tarquinio Prisco, in valle tra Aventino e Palatino fece costruire il Circo Massimo, la più grande struttura ludico-sportiva al mondo (maximum) capace di contenere dai 250.000 ai 300.000 spettatori dopo i restyling di C.G. Cesare e del figlioccio Ottaviano Augusto. Bonificata quell’area paludosa il re decise di destinarla a stadio, un lungo rettangolo di 600 x 140 m lobato verso il Tevere, con gradinate in muratura su due livelli rivestite di travertino e riparate da copertura contro intemperie e colpi di sole.

 Nell’area dell’Agro romano detta Appio-Claudia, tra via Tuscolana e via Appia Nuova, zona XVIII, nel 1881 s‘inaugurava il primo impianto dell’ippodromo di Capannelle, così nomato per la presenza di due grandi capanne a tetto conico a cavallo della via consolare. Non più caccia alla volpe per l’aristocrazia romana, né corse fai da te organizzate da Lord George Stanhope o quelle benedette dal papato fuori porta S. Giovanni, a Capannelle invece le gare equestri si svolgevano aderendo al regolamento europeo. Nel 1886 nuovo ippodromo con tribune liberty progettate dall’arch. Vietti Violi e da lì giù in pista per decenni di galoppo e trotto con la febbre da cavallo di passione e scommesse (ricordate la Mandrakata), scuderie di purosangue, fantini, frustini, zuccheri e carezze. Oltre centosessanta corse annue, Gran premi d’alto livello come il Derby Reale (quasi fatale a re Umberto I), un album di campioni col berretto in sella a quadrupedi figli del vento. Ma ora la HippoGroup vuol chiudere l’album dei ricordi, da gennaio 2019 stop alle corse, il rag. Comune chiede 5.000.000 circa di arretrati, Roma è stata esclusa, nel 2018, dal circuito dei Gran Premi e le sovvenzioni per il trotto sono a secco. In pratica si perdono cento posti di lavoro fissi più mille con l’indotto e soprattutto un’altra parte della faccia per la città eterna, non più tale ma a tempo ormai determinato senza scomodare i nefasti profeti.

 C’è un pensiero debole a governare Roma talmente fiacco da ridurla ad un gran bazar d’antiquariato sdraiato, inerme quanto un homeless addormentato, indifeso, alla mercé della barbarie di ignoranti lanzichenecchi. Senza scomodare i gufi che riducono il disastro solo a buche e monnezza, è ben altra cosa assistere rassegnati all’eutanasia di una civiltà (non di una semplice città) in un letto di ortiche.

 Capannelle è l’ultima cifra di tante altre, specchio di un carpe diem chiuso nei vecchi cortili di minestre, nelle chiese barocche vuote di preghiere, nelle metastasi di periferie inumane, nei bus eterni, nei ruderi star ai selfie di sconosciuti, nelle stanze polverose dei ministeri, tutto scorre lento senza la meta d’una foce in mare aperto, senza un sogno, quello dei nostri progenitori.  Superfluo stilare un elenco di progetti fermi o falliti, di aree industriali (la Tiburtina valley) quasi fantasma, di treni persi aspettando il prossimo, di stadi pallonari senza infrastrutture, il tutto assomiglia a Kunt il marziano sbarcato a villa Borghese partorito dalla penna di Ennio Flaiano, dopo la curiosità iniziale cade nell’oblio, stufo, sbeffeggiato e depresso se ne ritorna a casa. “L’uomo che non può creare vuole distruggere” citando un aforisma di E. Fromm, è quel che accade ogni giorno a Roma ed è la grande bruttezza.

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