La legge nostra è schiavitù d’amore

 

La legge nostra è schiavitù d’amore

Mentre sulla quarta sponda d’Italia, le 4 province volute da Italo Balbo, sono nuovamente in guerra tra loro, in altri paesi facenti parte dell’ex Impero Italiano scoppia finalmente la pace, il 16 settembre 2018 Il premier Etiope Abiy Ahmed ed il presidente Eitreo Isaias Afwerki sono a Jeddah, in Arabia Saudita, per firmare uno storico accordo di pace tra i due paesi, intesa, che pone fine ad oltre 20 anni di guerra, con oltre ottantamila caduti, conclusione formale dopo la storica visita a luglio di quest’anno del premier Etiope ad Asmara, occasione scandita nelle strade da canti, balli e  bandiere. Pace che è stata sempre osteggiata dai profeti dell’accoglienza.

 In Etiopia i nemici erano quelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè, Abiy, definì i membri dei TPLF “iene diurne”. In Italia le Iene diurne sono rappresentate dall’ establishment immigrazionista, che da decenni lucra sul business dell’accoglienza. L’ immigrazionista sa che la pace porterà meno eritrei ed etiopi in Europa, quindi meno soldi per le ONG, la Caritas e le Cooperative “rosse”. Secondo lo scrittore Eritreo Daniel W. Korbaria, la pacificazione nel Corno d’Africa può essere letta come “la celebrazione del funerale del giornalismo immigrazionista”, un duro colpo agli interessi del sistema e della stampa prezzolata.

 L’accordo di Jeddah prevede l’apertura di ambasciate nelle rispettive capitali, il ripristino dei collegamenti e l’uso dei porti eritrei da parte dell’Etiopia. Rischia di saltare anche la politica dell’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) che in questi anni è stata sponsor al regime Etiopico, sponsorizzazione data soprattutto in cambio di basi militari, sfruttate dagli americani per mantenere il controllo sulla vicina Somalia.

 Ma le trame nelle ex colonie Italiane iniziano a infittirsi, nel luglio dello scorso anno, l’Unesco ha definito la capitale dell’Eritrea, Asmara, patrimonio dell’Umanità, giudicando gli edifici costruiti negli anni Trenta dal Fascismo “un eccezionale esempio di urbanizzazione.” Riconoscimento ottenuto grazie all’impegno del governo eritreo. Nessuno in Eritrea si è mai sentito offeso dai monumenti fascisti, nessuno ha mai deciso di distruggere le fontane, i bar, i cinema, le ville immerse nel verde. Lungi da chi scrive nessun rimpianto per l’epoca coloniale, ogni popolo ha il diritto, e soprattutto il dovere di una propria legittimazione, non esiste un colonialismo buono ed uno cattivo, ma è indubbio che non possiamo non sentire una vicinanza per quei popoli con cui abbiamo condiviso sogni ed aspirazioni per un mondo antitetico a quello attuale dei liberi mercati.

 Mogadiscio (Somalia) 1992, durante l’operazione Restore Hope, sancita dall’ONU, il contingente italiano riprende il possesso dell’ambasciata, viene issato il tricolore. Il mattino successivo nel chiarore dell’alba, una sagoma si avvicina al posto di guardia, la sentinella intima l’alt, la figura si ferma di scatto, il soldato italiano, gli va incontro, e vede un anziano somalo sull’ottantina, in posizione di “attenti”, una sbiadita fascia tricolore legata in vita ed un vetusto moschetto 91-38, perfettamente oliato e saldamente impugnato lungo il fianco. Dopo essersi presentato come l’ascaro “Sciré”, l’anziano soldato proclama ad alta voce: “ho saputo che gli Italiani sono tornati, voglio riprendere servizio!” L’anziano soldato visto un tricolore sull’asta dell’ambasciata si era immediatamente presentato con la ferrea e non negoziabile intenzione, di ritornare operativo, aveva giurato fedeltà all’Italia, e un giuramento non si infrange.

 Il generale Loi al comando del contingente militare italiano decise di premiare l’ardire marziale dell’anziano combattente, gli fu data un’uniforme, un fazzoletto da collo di Cavalleria, un vecchio elmetto antisommossa dei carabinieri, venne inoltre gratificato dei gradi di caporalmaggiore e del brevetto di paracadutista, rimase in ambasciata a fare la guardia per tutta la durata della missione, la mattina si presentava per l’ispezione, facendo ruotare il suo fucile, scandendo sempre in un perfetto in italiano “Viva il Duce viva l’Italia, Italia che ispirandosi alla canzone di Renato Michele e Mario Ruccione del 1935, non può che gioire per quella “moretta liberata”, speriamo per sempre, almeno lei.

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