La locusta della guerra nel Tigrè

 

La locusta della guerra nel Tigrè

L’undici Ottobre 2019 il giovane premier etiope Abiy Ahmed Ali veniva insignito a Oslo del premio Nobel “ per i suoi sforzi per la pace e la cooperazione internazionale, in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto frontaliero con la vicina Eritrea”. Chissà che scorno per la teenager Greta Thunberg, icona della lotta ambientalista, giusta la causa ma attenti al lupo del Great Reset digital-green.

Sull’autostrada dell’informazione  difficile trovare un’uscita che non sia COVID-19 coi suoi caselli ben custoditi dai gestori dei media, il virus c’è eccome, ne so qualcosa, circola da mesi e spoglia d’un sereno tramonto gli anziani, spazza via la memoria d’un paese con una selezione anagrafica, mentre l’usura punta sul rialzo in borsa delle azioni societarie del vaccino.

Eppure nel bombardamento a tappeto, martellante da B-2 dell’aeronautica mediatica PSC (Progressismo Scientificamente Corretto), annusiamo da lontano l’odore acre della polvere da sparo, nella massacrata Siria, nei dimenticati Yemen e Birmania, nell’armeno Nagorno Karabakh e in ultimo, dai primi di novembre, nel Tigrè, regione a nord dell’Etiopia confinante con l’Eritrea.

La pace e la riconciliazione promosse dal Primo Ministro etiope sono implose, una metastasi nel proprio corpo non voluta ma certo provocata, una guerra regionale dichiarata da Abiy Ahmed contro il Fronte di Liberazione del Tigrè (TPLF) per soffocare la ribellione autonomista contro Addis Abeba, certo un modo di mediare i conflitti con le bombe non è proprio da Nobel per la pace, ma in questo Obama docet.

Le cause? Gli analisti fosforosi le collocano nella mancanza di rappresentanti del Tigrai nel Governo federale, uno schiaffo a un popolo piccino sì (6.08% della popolazione) ma assai organizzato, guerriero all’interno dell’EPRDF (Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope) nel far saltare il Negus rosso Menghistu nel ‘91, abbattendo la tirannia sanguinaria di questa testa di… ponte dell’ U.R.S.S. nel Corno d’Africa (Amnesty calcola un eccidio di 500.000 persone).

Ma l’ Etiopia come la Jugoslavia post-titina era ed è una polveriera di etnie diverse, un puzzle complicato da comporre ben oltre la promessa di una vaccinazione democratica di stampo occidentale, il dialogo non lima radici, cultura, rivalità etniche, aspirazione di ciascuna comunità alla piena sovranità territoriale. Le scintille tra Macallè e Addis Abeba sono scoppiate per le elezioni regionali, sospese in tutto il Paese a ragione del COVID, svoltesi invece nel Tigrai con la vittoria del TPLF, autonomismo col chiaro intento ribelle di sfidare il governo centrale. Così il secondo Stato più popoloso d’Africa rischia di esplodere come fu per i Balcani, dopo lo sciame delle locuste divoratrici di già magri raccolti, al cavaliere della carestia si affianca quello della guerra ed è emergenza umanitaria, il corno è quello di un rinoceronte che carica il Mar Rosso.

Eritrea, Etiopia, Libia, Somalia un poker di conflittualità, apnea della colomba, embolia che rende folli scendendo nell’abisso d’un inferno trascinandovi bambini, donne, anziani, ridotti a men che amebe nei campi profughi o sui barconi del Mediterraneo.

Andiamo così dritti alla politica estera italiana, un breviario don abbondiano di frasi scontate, trite, pura ipocrisia negoziatrice nella coscienza che il Paese conta un bel tubo, vedi la vicenda dei 18 marinai siciliani nelle galere libiche, a meno che non si paghi negoziando con bande e terroristi mentre s’invoca  aiuto! Aiuto! ai pachidermi immobili (UE, ONU).

I fatti narrano che in tutte le ex colonie del fu proclamato impero, dopo l’umiliante trattato di pace parigino del 10 febbraio 1947, sono esplosi conflitti etnico-intestinali e tra confinanti (stalinismo in Albania, guerra ventennale d’indipendenza eritrea, Terrore rosso in Abissinia, guerra Etiopia-Somalia, attuale guerra civile in Libia, ecc.) e il nostro Paese ha voltato le spalle alla storia  che scorreva vergognandosi di quei possedimenti al sole, bollati d’imperialismo liberale a seguire fascista, un suppuku ideologico nazionale sostenuto dalle guardie rosse della cultura comunista e benedetto dai chierici della Democrazia Cristiana, mentre i signori delle armi e le sorelle degli idrocarburi facevano i bei loro affari.

Allora occorre pur ricordarlo che l’ultimo ossigeno alla politica internazionale dell’Italia venne da Bettino Craxi Presidente del Consiglio (1983), il Mediterraneo tornava al centro delle lancette della Storia, mare di pacificazione, di dialogo costruttivo tra culture diverse, di impegno a una equa distribuzione delle ricchezze tra nord e sud, con l’Italia protagonista di questo ostico progetto compreso il cancro da estirpare del conflitto arabo-israeliano. E laggiù nel martoriato Corno d’Africa furono i socialisti a sostenere Siad-Barre al governo della Somalia contro le mire espansioniste del filosovietico Menghistu, caro compagno al P.C.I.

Ecco, riconosciamolo, quel Governo riconquistò il rispetto internazionale per l’Italia e gli italiani, segnò una forte autonomia in politica estera (non solo per l’alt ai missili a Sigonella) facendo del nostro Paese il vero tessitore tra primo e terzo mondo in mare nostro e non la riva fariseo buonista dei nuovi schiavi.

 

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