La Marcia su Roma della destra postfascista (I)
In occasione della ricorrenza centenaria del 28 ottobre 1922, molti sono stati i contributi, alcuni di valore altri talmente ottusi da apparire ridicoli, offerti dalla riflessione storiografica. Poco o nulla si è indagato sulla interpretazione che l’avvenimento, considerato comunemente l’inizio del regime fascista, susciterà nella destra postfascista, che si trovava nell’impossibilità di restaurare, ma che pure non voleva rinnegare. La Marcia su Roma costituiva la pietra d’inciampo in un tentativo di conciliare il fascismo con la democrazia pluralista e determinava di conseguenza la necessità di leggerla con una lente interpretativa non totalitaria. Non era infatti l’aspetto totalitario che la destra postfascista poteva sottolineare con l’avvento del fascismo, quanto piuttosto la necessità di una rivoluzione che restaurasse l’autorità dello Stato, lo salvasse dalla sovversione rossa; il che attribuiva alla Marcia e al primo fascismo un elemento di attualità in un Paese in cui esisteva legalmente il più forte partito comunista d’Occidente, oltre che il più sovvenzionato dall’Unione sovietica.
In altre parole, per la destra italiana del dopoguerra il fascismo non fu “subito regime”, per citare un noto libro di Emilio Gentile, benché, com’è ovvio, non tutti gli esponenti dell’area che si collocava a destra fossero concordi nel giudizio. Se, comunque, la Marcia su Roma non ebbe carattere totalitario, ciò rappresentò per alcuni la prova che era possibile essere fascisti in democrazia – sia pure di un fascismo che non scimmiottasse ridicolmente i miti e i riti del Ventennio – mentre per altri costituiva la dimostrazione che il fascismo non aveva saputo rappresentare una compiuta svolta nella storia italiana. Si tratta, in questo secondo caso, dell’interpretazione evoliana dell’avvento del fascismo: la prima e forse più articolata posizione che guardava da destra il fascismo, per parafrasare il libro del filosofo della Tradizione, ma che rimase anche la più isolata, anche, e soprattutto, per l’evidente impossibilità di attualizzarla e darle così una dimensione compiutamente politica. Se infatti il fascismo, come pensava Evola, ava dimostrato la sua insufficienza, non riuscendo ad operare un’autentica svolta autoritaria nel solco della Tradizione perenne, era evidente che il suo compito si era esaurito con la sconfitta bellica e di conseguenza un postfascismo in democrazia sarebbe stato solo un non senso. La linea interpretativa non poteva essere condivisa da un Msi e in genere da un’area che voleva fare politica portando con sé quanto di buono il fascismo aveva realizzato o almeno indicato come ideale regolativo che poteva e doveva essere declinato anche nel nuovo contesto politico.
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