La Marcia su Roma della destra postfascista (IX)
Nonostante riconoscessero nel fascismo una “storia italiana”, Rauti e Sermonti non esitano a definire le mosse di Mussolini alla vigilia del 28 ottobre come profondamente politiche. Infatti, mentre i ras premevano per una prova di forza immediata, Mussolini aveva chiaro che il problema non era tanto e soltanto quello di un “colpo di mano”, quanto di porre in essere le condizioni politiche: di aspettare che esse in parte si determinassero, affinché la conquista del governo desse la garanzia di durare nel tempo. La Marcia su Roma fu quindi un evento “naturale” e la cosa strana sarebbe piuttosto consistita nel non realizzarla, visto che il fascismo aveva annientato nello scontro frontale con le forze sovversive, tutte le loro residue strutture organizzative – militari, sindacali, cooperative e persino giornalistiche – e aveva dimostrato, armi alla mano, con la mobilitazione di decine di migliaia di uomini, che sapeva benissimo cominciare a sostituirsi allo Stato. Non solo, ma che le sue capacità di condizionamento delle stesse articolazioni operative dello Stato erano ormai enormemente cresciute. Il che spiega perché il fascismo si approssimasse al governo attraverso una via rivoluzionaria alla luce del sole, non nascondendo i suoi propositi, anzi dichiarandoli apertamente.
Il progressivo inserimento del Msi nella vita della democrazia parlamentare pluralista, pur stante la persistente sua esclusione dal cosiddetto arco costituzionale, determinò una lettura degli eventi del 28 ottobre e dintorni, che si allontanava sempre di più da quella evoliana, persino da parte dei “figli del sole”. Il fascismo diventava un fenomeno da inserire sempre più a pieno titolo nella storia d’Italia. Non si tratta, almeno non per tutti gli esponenti della destra postfascista, di negarne l’elemento rivoluzionario, ma di leggerlo come momento costruttivo di una nuova Italia, sostanzialmente conservatasi anche nel dopoguerra. Interessante, al proposito, la posizione di un sincretista come Enzo Erra, evoliano e gentiliano insieme, per il quale, dopo che il fascismo aveva sovrapposto al 28 ottobre una spessa coltre retorica, si deve proprio alla retorica antifascista, uguale e contraria, il merito di aver liberato il momento fondativo del fascismo dalla magniloquenza di cui il regime lo aveva ricoperto. Immani sforzi, infatti, si erano compiuti nel dopoguerra per “dimostrare” che la Marcia su Roma non fosse stato un evento rivoluzionario, ma al più un’insurrezione, un colpo di Stato, un’insorgenza. L’egemonia culturale della sinistra ha dato al termine rivoluzione un’accezione positiva che perciò, in quanto tale, non poteva essere attribuita alla Marcia del 1922. Questo, quando tutte le letture, anche le più faziose, concordano nel confermare come il 28 ottobre abbia cambiato il volto dell’Italia; che un’intera classe politica venne cancellata e un’altra ne prese il posto; che le strutture dello Stato si trasformarono; che i valori morali, gli obiettivi politici, le aspirazioni popolari, gli equilibri sociali, il linguaggio e il costume mutarono radicalmente e sorse una nuova realtà, nata incontestabilmente da una guerra vinta, che crollò solo venti anni dopo, a causa, altrettanto incontestabilmente, di una guerra perduta.
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