La Marcia su Roma della destra postfascista (VII)


 

La Marcia su Roma della destra postfascista (VII)

Il fascismo, per Adriano Romualdi, fu la sintesi tra nuovo e antico, la volontà di presentare i simboli di una tradizione primordiale in un’armatura di vetro e acciaio. La Marcia su Roma fu il farmaco per una malattia europea e come tale fu un fenomeno “romantico”, perché, come il Romanticismo ottocentesco, avvertì il rischio che comportava il disseccarsi delle fonti spirituali e comunque, come il Romanticismo ottocentesco reagì alla rivoluzione del 1789 inserendo le forze borghesi nel solco di una nuova autorità e di una nuova solidarietà. In conclusione, per Romualdi, il fascismo fu la reazione istintiva dei popoli europei alla prospettiva di esser macinati in una polvere anonima dalle internazionali di Mosca, di Hollywood, di Wall Street; fu una reazione e un fenomeno europeo che trionfò pienamente in quei Paesi, come l’Italia e la Germania, che avevano sofferto sulla loro carne la cancrena del comunismo e i raggiri del wilsonismo.

La stessa continuità storica veniva segnalata da Giuseppe Niccolai, per il quale la Marcia su Roma, e in genere le origini del fascismo, sono stati un fatto di cultura predisposto e preparato da una confluenza di fermenti intellettuali di cui Mussolini fu il collettore. Se la Marcia segnò l’ingresso dell’Italia nella storia, con la volontà di recitare un ruolo da protagonista in virtù dell’alleanza tra patria e popolo, piazzale Loreto fu invece la volontà di uscirne e di vivere alla giornata perseguendo soltanto il proprio benessere individuale e materiale. Sulla stessa linea sostanzialmente si poneva Pino Romualdi, lo storico fondatore ed esponente del Msi e padre di Adriano, il quale riteneva che l’eredità del 28 ottobre – morale oltreché politica – consisteva proprio nell’intendere la vita non come una commedia, ma con serietà e impegno per sentire ogni atto dell’esistenza come un dovere, come una conquista, come il premio di una lotta generosamente combattuta.

La Marcia su Roma ha portato sì a una dittatura, ma una dittatura al servizio del popolo italiano; per questo fu una rivoluzione che, se non è riuscita, non è stato per intralci e tradimenti, ma solo per la sconfitta nella guerra. In occasione del centenario mussoliniano si espresse anche Cesare Mantovani, all’epoca direttore de «Il Secolo d’Italia», in linea con l’esigenza di non rinnegare il fascismo e insieme di negare il suo carattere totalitario, in modo da poter essere “fascisti in democrazia”. Infatti, egli affermava, la Marcia su Roma fu senz’altro una rivoluzione, la quale, come tale, è capacità di sintesi, è una forza che si afferma per tutti e che tutti ha la capacità di coinvolgere e rappresentare. La rivoluzione in questo senso fu totalità, ma non totalitarismo.

 

 

Immagine: https://www.adnkronos.com/

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