La mia Europa, la nostra Europa
Come sanno i miei lettori mi addentro mal volentieri nel quotidiano della politica, dove domina – personale giudizio e non doversi condividere – il colore grigio della vergogna, il regno dei guitti e dei saltimbanchi o, comunque, atmosfere plumbee e mefitiche a cui, un tempo, mi illusi poter portare con la mia inquietudine tra bastoni e barricate una ventata di irriverente cambiamento. Per questo volli sottotitolare un mio libro “un ragazzaccio in camicia nera racconta”. Quella camicia nera che ben s’adattava ai capelli e lunga la barba, alle definizioni di Robert Brasillach sull’anarco-fascismo, ad amici quali Mario Castellacci (l’autore de La canzone strafottente più nota con il suo verso iniziale “le donne non ci vogliono più bene” e Antonio Serventi, erede della follia del Cervantes e della bottiglia, più noto come il Cobra, di cui mi dolgo tuttora aver perso lettere e versi che mi donò nel cortile del secondo braccio, nel carcere di Regina Coeli.
La camicia nera, idealmente, livrea del Don Chisciotte, di Cyrano de Bergerac e del salgariano il Corsaro Nero (che non si trattiene le lacrime, fedele al giuramento di fare vendetta e, al contempo, amare), personaggi letterari e sodali nel mondo interiore del mio sentire. A me fedeli e io a loro fedele. E tutto questo di fronte alle ragioni – non sono sottili bizantinismi né il delirio di un folle – di Putin alle immagini devastanti di macerie di un popolo in fuga ma anche di orgoglio eco vivo di “sangue e suolo” alla pretesa di un Occidente (e brutta e servile espressione di americanismo quando si priva d’essere quella “terra della sera”, tanto cara alla meditazione propostaci da Heidegger) di poter contare i “trenta denari” per non sapersi dare unità in stile ed armi. Come vedete, qualcosa l’occhio raccoglie e il darsi all’ascolto nella prigione della mia stanza… E la giovinezza ove, tramite Adriano Romualdi e la lettura di Drieu e Jean Thiriart, l’Europa mi appariva da Brest fino agli Urali e – ne ho tratto un libro – mi sono messo sulla strada percorrendone alcune delle sue strade. (Proprio l’altra sera, sotto pioggia battente, Rodolfo, con cui lo si scrisse – me ne ha portato copia. E la soddisfazione dell’editore e nostra che furono vendute buon numero di copie).
Un’Europa di cui tracciai gli esordi nel mito antico, di quel ratto messo in atto da un dio sensuale e mostratosi sotto forma di candido toro ai danni di principessa scesa alla riva – da Oriente verso Occidente per poi, tramite la risoluzione con taglio netto di spada, il nodo di Gordio, spingere Alessandro fino alle terre lontane dove filosofi furono coloro che sapevano dominare il corpo e trattarlo quale illusione. Le aquile di Roma, gli dèi che nascono e muoiono, l’Imperium.
Ho smesso da lunga data il fumo e del vino ne feci abuso solo preda di lontane circostanze. Della vanità intellettuale – vengo da un mondo piccolo borghese ove una laurea era considerata un trofeo e molto meno un’auto sportiva o la settimana bianca – conservo qui fragili tracce e le pareti con il disordine di troppi libri. Forse, però, qualcosa s’è preservato: non essere simile all’edera che per crescere abbisogna d’altrui pianta (immagine questa di cui mi fa dono il guascone dal grande naso e abile di spada), così estraneo alla contesa posso ripensare alle strade d’Europa, di un’Europa che non è il fronte dell’Est o le luminarie dell’Ovest ma lo spazio della mente e del cuore e preservare gli ideali che ci rendono liberi e i sogni a mantenerci giovani. La mia Europa, la nostra Europa…
Immagine: https://immagineperduta.it/