La rabbia

 

La rabbia

Fu un film documentario del 1963 a due mani non strette ma imposte dal piccolo produttore Gastone Ferranti estrapolando, montando e commentando immagini, selezionate dai registi, prese dal cinegiornale Mondo Libero (1951-1959), una trovata business il far salire sul ring due intellettuali diametralmente opposti, Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi, in un match del “visto da sinistra e da destra” per dar risposta alle domande: “perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”, niente di più attuale.

Primo il docu-film era del solo Pasolini poi al Ferranti balenò l’ideuzza, per lui “affascinante”, di farne un’opera a due voci dissenzienti, acide o satiriche, comunque fuori dal coro ebbro del boom economico parto dell’industrializzazione. Due grilli parlanti agli antipodi, uno rivolto a est del muro di Berlino, l’altro a ovest, comunista indigesto al P.C.I. il primo, monarchico di ferro il secondo (due anni nei campi di prigionia tedeschi per il rifiuto di aderire alla Repubblica sociale).

Le domande, un po’ retoriche, di presentazione del lungometraggio ebbero risposte assai diverse, però quel pepe programmato a farne una pietanza appetitosa forse aveva perso di fragranza, l’era già un po’ retro, proprio in quell’anno nasceva il primo governo organico di centrosinistra, la contrapposizione DC-P.C.I certo restava ma la classe operaia socialista, riformista, s’era incamminata da via del Corso a Piazza del Gesù seguendo, forse, quel ponentino che spirava dall’altra sponda del Tevere, il dialogo senza pregiudizi, il testimone passato da Papa Giovanni XXIII alla società aperta.

Comunque uscito in poche sale il film fu ritirato in fretta e furia dopo tre giorni dalla distribuzione, aprendo l’asola al sospetto d’ un piccolo giallo alimentato dalle scelte politicamente scorrette e irriverenti dei due autori (entrambi antiamericani), unanimi però, senza volerlo, nell’individuare le risposte a quei quesiti esistenziali nell’omologazione forzata delle masse sul modello della futura globalizzazione, autentica pandemia delle coscienze corrotte dalla società dell’edonismo olistico, ubriaca di goduria di vivere per consumare, copiando l’ american way alla felicità.

Fu un saggio ideologico armato di fotogrammi con commenti lirici o satirici sparati da due trincee contrapposte, con affondi di sprezzo l’un verso l’altro da fare dell’opera un Orto rabbioso bicefalo, ma a chi scrive interessa un solo il punto di congiunzione, la suonata triste contro il mondo moderno eseguita a sei mani, quattro dei due registi e due di Ezra Pound amanti delusi per la sconfitta d’un mondo antico, arcaico divenuto inutile scarto con i suoi rifiuti umani.

Commentò così Pasolini l’elezione al soglio pontificio di Papa Roncalli: “…il nuovo Papa nel suo dolce misterioso sorriso di tartaruga pare aver capito di dover essere il pastore dei miserabili perché è loro il mondo antico e sono essi che lo trascineranno avanti nei secoli […] Sorride il Pastor paganus e Renzo e Lucia si sposano lietamente davanti ai suoi occhi, ormai anche gli archi barocchi sono loro e i saloni d’oro di Don Rodrigo, e le cattedrali. […] Lo spirito è il retaggio del mondo contadino e tu sii il pastore del mondo antico che in quello spirito ha vita. ”. E Guareschi in risposta alle domande del film:”…Gli uomini si ribellano alla natura. Sfidano la natura e le sue leggi. Camminano su una strada che non sappiamo dove ci porterà. Questa incertezza nel domani è la nostra angoscia. La nostra frenesia di piaceri materiali è la nostra scontentezza. I beni materiali non bastano all’uomo che è fatto di materia e di spirito.”

E dov’era per lui l’armonia poi spezzata tra corpo e spirito se non nel mondo piccolo, rurale della Bassa, nei borghi contadini, tra sentieri tracciati tra i campi, canali, e il richiamo all’anima al tempo del giorno dei campanili.

E così s’esprimeva Pasolini su Ezra Pound: “voleva fortemente restare nel mondo contadino”, legato all’America dei pionieri, dei cowboy, dei farmers, il mito dell’Utopia, “la città nella mente indistruttibile”, che nessuno avrebbe mai potuto conquistare perché custodita nelle sue idee.

Ecco allora il fiore di speranza sbocciato da Guareschi, il Cristo parlante di don Camillo, custodire a tutti i costi, con sana rabbia, il seme, nonostante le tempeste e i ladri per poi piantarlo nel campo, con la fede di raccogliere biondo, rigoglioso grano.

 

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